Lo sapevate? In quali edifici di Napoli sono rimasti lavori del grande Giotto?
Il grande pittore toscano del Trecento, invitato da re Carlo II d'Angiò, lasciò altre impronte della sua mirabile arte nella città partenopea. Andiamo a scoprire dove.
Lo sapevate? In quali edifici di Napoli sono rimasti lavori del grande Giotto?
Il grande pittore toscano del Trecento, invitato da re Carlo II d’Angiò, lasciò altre impronte della sua mirabile arte nella città partenopea. Andiamo a scoprire dove.
Nel cortile del Maschio Angioino si trova la trecentesca chiesa gotica di Santa Barbara, nota anche come Cappella Palatina. Sulle pareti è possibile ammirare anche rari frammenti di affreschi di Giotto, andati in gran parte perduti, che rappresentavano Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento. Andiamo a scoprire quella che era un’autentica meraviglia.
La cappella è l’unico ambiente dell’antica struttura angioina rimasto integro. Voluta da Carlo II d’Angiò, fu ultimata sotto il regno di Roberto, che chiamò Giotto (allora sessantenne) per la sua decorazione. Il grande pittore realizzò un ciclo di affreschi (1329-30).
L’interno è formato da una sola navata ricoperta da una volta a capriate lignee, senza cappelle laterali, e termina con un’abside rettangolare sul cui fondo si apre un’alta e larga monofora contrapposta a quelle, lunghe e strette, delle pareti laterali.
Nel Trecento venne interamente affrescata con le Storie del Vecchio e del Nuovo Testamento da Giotto e dai suoi allievi. Di questo ciclo restano soltanto pochi frammenti negli sguanci delle finestre con testine decorative e motivi vegetali, attribuiti a Maso di Banco e collaboratori, che ricordano gli affreschi giotteschi della cappella Bardi in Santa Croce a Firenze.
La Cappella, unica testimonianza dell’antica reggia angioina, attualmente è destinata ad ospitare mostre temporanee.
Il Maschio Angioino era stato adibito spesso come residenza temporanea per ospitare illustri personaggi a Napoli in visita ufficiale alla corte reale. Tra le principali personalità di spicco Giovanni Boccaccio, Giotto, Papa Bonifacio VIII, Papa Celestino V e Francesco Petrarca.
A Giotto venne affidato da re Carlo II d’Angiò l’incarico di affrescare la parete destra dell’unica navata della Cappella Palatina.
Giotto (anche se nell’Ottocento venne messa in dubbio la reale attribuzione dell’opera) affrescò anche la “Cappella Segreta”, nota come Cappella parva, perché ormai non esiste più, in quanto fu distrutta in occasione del restauro del Maschio Angioino in età aragonese. La cappella, dove Giotto molto probabilmente soggiornava, si trovava al fianco dell’Appartamento Reale.
Il ciclo degli affreschi di Giotto risale all’epoca napoletana, in cui egli avrebbe poi anche realizzato un’Apocalisse all’interno della Basilica, nel Monastero di Santa Chiara Vergine, in stretta collaborazione con il poeta Dante Alighieri, che era stato bandito da Firenze.
Perché Giotto fu chiamato a Napoli?
Giotto, nato a Colle di Vespignano, nei pressi di Firenze nel 1267, è considerato uno dei padri della pittura italiana.
Sappiamo che la sua attività non ha interessato solo la sua Toscana, ma anche altri centri importanti in cui ha realizzato opere incredibili come il ciclo di affreschi dedicati alla vita di San Francesco nella Basilica Superiore di Assisi, la Cappella degli Scrovegni a Padova.
Ma anche Rimini, Milano, Roma e Napoli, alla corte di Roberto d’Angiò, molto probabilmente grazie alla famiglia Bardi, legata agli Angioini e alla corte napoletana, e per la quale affrescò la cappella di famiglia all’interno della Chiesa di Santa Croce a Firenze.
Giotto era il pittore più celebre e stimato del momento.
Giunse a Napoli nel 1328 e vi restò cinque anni, fino al 1333. In questo periodo lavorò in due contesti cittadini molto importanti per la casata angioina: la Chiesa di Santa Chiara, che fu il progetto ad iniziare per primo nel 1328 e il Castel Nuovo, il cui cantiere venne avviato nell’estate del ’29. I due progetti quindi continuarono parallelamente.
La sua operosità nella città partenopea è decantata da Dante Alighieri nel canto XI del Purgatorio, da Giovanni Boccaccio nell’Amorosa Visione e Petrarca nel suo Itinerarium Syriacum. Il suo intenso lavoro a Castel Nuovo (Maschio Angioino) è accertato attraverso i documenti angioini in cui sono presenti i pagamenti effettuati a Giotto, e alcune fonti cinquecentesche confermano gli interventi del pittore nel monastero di santa Chiara.
Nel monastero di Santa Chiara è presente un Calvario insieme a un Compianto sul Cristo morto. Sono identificabili attraverso un’immagine crocifissa posta in alto a sinistra, forse trattasi di un ladrone, nella parte centrale sono presenti gli angeli in preda alla disperazione e nelle vicinanze, cioè nella parte mancante, probabilmente stava Gesù disteso a terra circondato da donne doloranti.
Nella parte inferiore della parete è raffigurato un coro, si dibatte tra studiosi se appartiene o no a Giotto. La paternità è dubbia anche su alcuni disegni presenti sui finestroni di certune cappelle del monastero su cui sono rappresentati clipei, finti mosaici e vegetali.
Gli affreschi della Cappella Palatina furono la prima opera di Giotto a Napoli a comparire nelle fonti del tempo e ad avere un’esplicita testimonianza documentaria. Come riporta un vecchio articolo del Corriere di Napoli, La decorazione della Cappella Palatina riguardava un perimetro di circa 1800 metri quadri e in origine doveva consistere in un ciclo di affreschi su storie del Vecchio e Nuovo Testamento, ma purtroppo quest’opera ebbe vita davvero breve. Infatti fu distrutta intorno al 1470, sotto il regno di Ferrante d’Aragona. L’unico possibile testimone oculare è l’umanista Pietro Summonte che non solo ebbe la fortuna di vedere la cappella affrescata, ma ne visse anche la distruzione. In una lettera del 1524 indirizzata all’amico veneziano Marcantonio Michiel scrive:
“Dentro la cappella del Castelnuovo era puntato per tutte le mura, di mano di Iocto, lo testamento vecchio e nuovo, di buon lavoro. Poi, ad tempo del re Ferrando Vecchio, un suo consigliere, poco bon iodice di cose simili, estimandole poco, fe’ dar nuova tunica ad tutte quelle mura: lo che dispiacque e dispiace anco oggi ad tutti quelli che hanno alcun iudicio”.
Degli affreschi della Cappella Palatina restano solo tracce frammentarie che si concentrano soprattutto negli sguanci dei sette finestroni, che originariamente dovevano essere otto, prima dell’ampliamento della Sala dei Baroni. Tutti i finestroni presentano negli sguanci due larghe fasce piane decorate. Una delle due fasce inquadra teste virili affacciate in cornici esagonali o circolari, l’altra è decorata invece con ornati vegetali su fondo scuro.
Un documento del 1331 attesta che Giotto oltre a questi affreschi, lavorò anche ad un dipinto d’altare destinato sempre alla Cappella Palatina e altri affreschi a completamento di una decorazione già esistente nella Cappella Segreta che andò distrutta, o meglio “riempita” con materiali di risulta durante il periodo aragonese.
Giotto realizzò anche un ciclo che raffigurava “Uomini illustri dell’antichità e dei loro amori“ nella Sala Grande del palazzo, ma anche quest’opera durò poco a causa delle vicende strutturali della sala in questione.
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