“In seguito ad un errore dell’ufficio stampa della Regione, che ha prontamente segnalato, mi è stato attribuito un virgolettato a me non appartenente, pertanto reputo doveroso alcune specifiche: non sono assolutamente favorevole e mai ho sostenuto di voler riaprire la pesca dei ricci ‘tutto l’anno”.

Lo dichiara l’assessora regionale dell’Agricoltura Valeria Satta smentendo un comunicato ufficiale diffuso ieri dall’Ufficio stampa della Regione Sardegna.

“Alcune decisioni vengono prese con il buonsenso, con l’ascolto e la comprensione delle esigenze reali, elemento che evidentemente sta sfuggendo all’Onorevole Presidente di Commissione, Maieli, tanto impegnato a pensare alla sottoscritta in maniera ossessiva più che a stare nei territori ad ascoltare le esigenze dei Sardi” dichiara.

“Aprire la pesca dei ricci ‘tutto l’anno’ è chiaro a tutti, anche a chi non è addetto ai lavori, che, sarebbe gravemente impattante per il nostro ecosistema marino, quindi dopo i ripetuti incontri con i professionisti, i svariati tavoli di categoria, lo studio dell’università sulla questione dell’ultimo anno, mai potrei pensare di attuare una manovra del genere” aggiunge l’esponente della Giunta Solinas.

“Ribadisco la mia volontà invece di rivedere il blocco normativo regionale ma di farlo con le dovute precauzioni, seguendo un calendario delineato che vada a tutelare la specie sopra qualsiasi altra necessità e prevederne la riapertura solo ed esclusivamente nel periodo permesso. Mi rimetto comunque sempre al tavolo del comitato pesca composto dalle associazioni del settore, dall’Università, Agris, Capitaneria e Corpo forestale” conclude Valeria Satta.

In Sardegna, il pane non è mai stato solo cibo. È sempre stato simbolo, rito, ingegno. Tra i tanti pani che affollano la straordinaria tradizione sarda – dal carasau al civraxiu, dal frattau al pistoccu – ce n’è uno che affonda le radici in un tempo così lontano da sembrare mitico: Su Pan’Ispeli, il pane di ghianda. Citato persino da Plinio il Vecchio, scrittore dell’antica Roma, nella sua enciclopedia “Naturalis Historia”, viene descritto come “un pane impastato con argilla del quale si nutrono i Sardi”.

Questo alimento antico risale al Neolitico e nasce in un contesto di fame e sopravvivenza. Quando il grano scarseggiava, le donne sarde guardavano alle querce, generose di ghiande mature. La raccolta era attenta: si sceglievano solo quelle ben sviluppate, simbolo di forza e nutrimento. Ma non bastava raccoglierle: le ghiande andavano sbucciate, lessate e poi depurate con un rituale tanto antico quanto affascinante.

L’acqua della bollitura veniva filtrata attraverso uno strato composto da argilla, erbe aromatiche e cenere. Questo non solo serviva a eliminare le sostanze amare e tossiche, ma aveva anche un significato profondamente spirituale. In epoca primitiva, in Sardegna era fortissimo il culto della Dea Madre, divinità della terra e della vita. L’argilla, considerata il suo sangue, aveva un valore sacro: cibarsi di quel pane significava ricevere protezione ultraterrena e conquistarsi un posto nell’aldilà.

Una volta cotte e purificate, le ghiande venivano ridotte in una sorta di “polenta” densa, modellata in pezzi, poi asciugata lentamente al sole o nel forno. Il risultato era un pane dal colore scuro, quasi nero cenere, con un sapore intenso e inaspettatamente gradevole. Nonostante la sua origine umile, Su Pan’Ispeli era tanto apprezzato che continuò a essere preparato e consumato in Ogliastra fino agli anni ’50 del Novecento.

Oggi, il pane di ghianda è quasi scomparso, ma resta uno dei simboli più potenti dell’ingegno e della spiritualità antica della Sardegna: un cibo che nutriva il corpo e, secondo chi lo preparava, anche l’anima.