Il curioso fenomeno dei “figli affittabili” nell’antica Roma
Un'usanza che sarebbe considerata lesiva dei diritti umani era per l'epoca una soluzione concreta per numerose questioni sociali ed economiche.
Il curioso fenomeno dei “figli affittabili” nell’antica Roma.
Un’usanza che sarebbe considerata lesiva dei diritti umani era per l’epoca una soluzione concreta per numerose questioni sociali ed economiche.
La società dell’antica Roma era piuttosto complessa e molte pratiche possono sicuramente sembrare inopportune e sui generis agli occhi di un cittadino moderno. Una di queste prassi, che attualmente verrebbe giudicata come immorale è quella dei “figli affittabili”. Sì, proprio così: nell’antica Roma, era possibile “affittare” un figlio e questa usanza era regolata dallo “ius vendendi”, il diritto di poter “vendere” un membro della prole come schiavo. A questo si aggiunge inoltre anche lo ius noxae dandi, ossia la possibilità di barattare il proprio figlio come “cauzione giudiziaria” di pagamento per un atto illecito effettuato dal genitore.
Ai giorni nostri, l’idea di affittare un figlio sembra non solo strana ma anche riprovevole. Tuttavia, per quell’epoca questa usanza era considerata una soluzione concreta per numerose questioni sociali ed economiche, spesso motivata da fattori quali la povertà e la mancanza di risorse. Il lavoro era precario, le condizioni di vita potevano essere estreme ed alcune famiglie non potevano permettersi di mantenere i loro figli.
Consideriamo il contesto sociale: il “pater familias” aveva diritto di vita e di morte sulla propria progenie (ius vitae et necis) e quindi se lo riteneva opportuno poteva anche uccidere i propri figli senza alcuna conseguenza legale in caso di atti considerati irreparabili. Questo potere del capo famiglia si estendeva sulla moglie e sulle proprietà.
I figli venivano affittati mediante un contratto formale e spesso svolgevano lavori domestici o nei campi. In cambio la famiglia riceveva un pagamento o altre forme di assistenza finanziaria.
Tuttavia vi era un limite: lo “ius vendendi” poteva essere applicato al massimo due volte per lo stesso figlio che tornava a casa una volta terminato il tempo concordato di schiavitù con un padrone. Spesso ciò avveniva con un “compratore” all’estero.
L’usanza ovviamente solleva una serie di questioni etiche: quali erano le condizioni di vita per i figli affittati? Come si sentivano i genitori a cedere i propri figli a estranei? E quali erano gli effetti psicologici sui figli stessi, separati temporaneamente dalla propria famiglia?
È facile dedurre che la divisione dalla propria famiglia e la vita in una nuova casa potevano lasciare cicatrici emotive profonde sui figli affittati, ma è anche vero che attraverso tali pratiche possiamo prendere atto della complessità della vita quotidiana in un’epoca lontana. Studiare queste attività ci aiuta a comprendere meglio il tessuto sociale e culturale non solo dell’antica Roma ma a riflettere sulle nostre norme e valori moderni.
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