Sconfigge un tumore e avvera il suo sogno professionale: la storia di Deborah Ambrosini
A soli nove anni, Deborah precipita in un mondo che nessun bambino dovrebbe conoscere: quello della lotta al tumore. La sua storia
«Mi capita di pensare a chi non c’è più. In passato da bambina mi chiedevo come mai io fossi qui e loro no… mi sono sentita in colpa per tanto tempo, poi invece ho capito che dovevo vivere al mio meglio anche per loro. Non è stato facile però elaborare tutto questo. Quanto al “superare il tutto”, penso sempre a un concetto che mi aveva colpito e che mi rappresenta: una volta combattuta la malattia, inizia il vero percorso di “guarigione”. E questo richiede molto, molto, molto più tempo.»
Quando si è bambini, si dovrebbe pensare a giocare, a divertirsi, a immaginare mondi fantasiosi e a immergercisi. Non certo a come sopravvivere a un brutto male. A convivere con la sofferenza e con la paura. A svegliarsi una mattina per scoprire che un amico non ce l’ha fatta.
Tutti li chiamano i sopravvissuti, ma sarebbero da chiamare eroi: bambini che, con un’armatura speciale, hanno combattuto unghie e denti mettendo in standby la loro serenità per diventare guerrieri. Con un po’ di paura, d’accordo – ma senza paura non c’è nemmeno il coraggio –, ma ricchi di forza e dolcezza.
La 37enne cagliaritana di nascita Deborah Ambrosini è, appunto, un’eroina.
Ma torniamo indietro nel tempo. Deborah è una bambina socievole, attiva, sempre carica di quesiti – come i bambini vivaci sanno essere. «Dovevano trattenermi per non parlare troppo o chiedere qualcosa di imbarazzante a qualcuno: avevo una bella parlantina! Mi piaceva giocare all’aperto o ai giochi di fantasia con mia sorella e le mie cuginette. Andavo a scuola e, se pur con le prime difficoltà, mi piaceva giocare coi compagni. Ero piccola e non ricordo tantissimo del periodo precedente alla malattia.»
Nel ’95, a soli 9 anni, però la sua vita ha un brusco cambiamento.
«Avevo una febbre alta che non passava e zoppicavo, il tutto assieme al dolore addominale. Avendo appena passato una bronchite asmatica, inizialmente si pensava fosse a causa delle iniezioni effettuate, ma una volta arrivata nel primo ospedale pediatrico non sono riusciti a risalire alla causa del problema. Dopo svariato tempo, hanno pensato allora di chiedere un consulto alla Professoressa Gambarella e lei già dalla sola visita manuale ha deciso di operarmi d’urgenza per peritonite acuta.»
Sotto i ferri viene fatta una scoperta raccapricciante: tutto era stato causato da un tumore.
«Dopo aver effettuato un’altra operazione pochi giorni dopo, per capire la situazione (ma era inoperabile), mi è stata fatta la biopsia e sono stata portata e ricoverata al Microcitemico per essere seguita lì. Di lei le persone hanno un ricordo rigido ed austero, pieno di divieti e privazioni. Nel mio caso è stata il mio angelo, con me era anche gentile. Non sarei qui senza di lei.»
All’inizio, la piccola Deborah non si rende conto di quel che accade. La prima impressione? Be’, negativa. Ovviamente, si potrebbe aggiungere.
«Mi ricordo in particolare l’accoglienza di alcuni bambini e bambine, una delle quali mi aveva anche scritto una letterina per accogliermi. Ricordo il calore di alcuni medici e infermiere/i. Il Dottor Giulio Murgia mi spiegò cosa mi stesse succedendo tramite un disegno e usando lo staff medico stesso come esempio, riuscendo a farmelo capire senza allarmarmi. Poi però ricordo anche lo stordimento e il malessere alle prime terapie. L’ansia al pensiero della “puntura lombare” e in seguito anche i vari imprevisti che ho vissuto: inizialmente ho perso la possibilità di camminare e recuperato nei mesi successivi con la fisioterapia, ho poi vissuto due shock anafilattici dovuti dalle trasfusioni di piastrine e un episodio di convulsioni dovute alle terapie. Questo ha sicuramente alimentato varie ansie che mi sono portata nel mio zainetto di esperienze, ma mi ha anche permesso di maturare in modo profondo e mi ha reso consapevole di tante cose, cosa che una bambina non dovrebbe essere, ma non sarei quella che sono adesso, altrimenti.»
Ma c’è una cosa che a Deborah fa male più di tutte: «Una delle cose peggiori era rendersi conto di chi non ce la faceva. Non ero cosciente di tutti, penso che i miei genitori abbiano provato a proteggermi in parte da ciò che avevo intorno, ma sapevo che non tutti ce la facevamo. Dal mio canto provavo ad andare avanti ma allo stesso tempo pensavo a godermi le giornate in cui stavo bene, quando potevo giocare con mia sorellina o con mia zia che ci faceva da baby-sitter. Anche se sentivo di non essere “come gli altri” e questo mi ha accompagnato anche successivamente. Soffrivo nel non poter frequentare la scuola e i miei compagni e sono riuscita a tornare solo poco prima dell’esame di quinta elementare. Nell’ultimo anno ho studiato con un’educatrice che veniva a casa.»
Poi, inaspettatamente, torna il sereno.
«Non ci potevo credere. Tra l’altro è stato abbastanza improvviso. Avevo una “nocciolina” di tumore ancora visibile e percepibile e sono stata mandata di nuovo dalla Professoressa Gambarella per l’operazione, ma una volta aperta non è stata più trovata. Non si è mai capito cosa fosse successo ma ne sarò per sempre grata dato che se non fosse stata possibile la rimozione sarei dovuta ricorrere probabilmente alle radiazioni e stava vicino a utero e ovaie. Quindi una volta che sono tornata a scuola, per finire la quinta elementare e fare l’esame coi miei compagni, è stato come una boccata d’aria fresca dopo una corsa.»
Arrivano le medie, con la terapia di mantenimento, ma ancora il cielo di Deborah non si è pienamente rasserenato: la bambina ha problemi di adattamento sociale e non solo: come se non bastasse, se la deve vedere anche con episodi di bullismo.
«Mi sono isolata io per prima, mi sentivo totalmente diversa anche perché mi trattavano in maniera diversa rispetto ai compagni. In questo non aiutarono nemmeno alcune insegnanti, una delle quali mi fece notare che stavo male coi capelli corti (in ricrescita) e che sembravo “un maschietto”. Un’altra raccontò il mio vissuto ai compagni quando non c’ero, glielo avevo scritto in un tema. Non riuscii più a provare a integrarmi, una volta capito. Quando poi mi hanno detto “oggi era l’ultimo giorno, sei fuori terapia” è stata una delle gioie più forti, non me lo aspettavo quel giorno e ho davvero sentito finalmente la speranza di poter tornare a vivere davvero appieno.»
E che cicatrici lascia una lotta alla sopravvivenza come questa? Cosa lasciano nell’animo umano anni e anni di sofferenza, di speranza?
«Sicuramente percepisci in te qualcosa di diverso rispetto agli altri coetanei. Soprattutto se ti lascia strascichi come nel mio caso, in particolare un piccolo difetto cardiaco. Non potevo fare nemmeno educazione fisica a scuola e questo sentirmi diversa probabilmente me lo sono portata dentro a lungo. Mi ha lasciato tante cicatrici, esterne quanto interne, che mi vergognavo un po’ di mostrare. Ci è voluto tempo perché me ne fregassi di più, avevo il terrore me le facessero notare e mi chiedessero cosa fosse: e puntualmente succedeva. Avevo paura di parlare di cosa mi era successo e della malattia, forse anche per l’esperienza alle medie, quindi oltre all’imbarazzo nel farmi notare il “difetto” non sapevo che rispondere. Sono riuscita a parlarne col tempo, ora non provo più quell’ansia nel farlo.»
E non solo: la 37enne ne parla anche su un video YouTube. «Anche questo mi ha aiutato a “normalizzarlo”.»
«Al momento mi capita di pensarci, mi capita di pensare a cosa ho passato e a come l’ho affrontato. Mi chiedo come lo farei oggi e mi rispondo che forse non avrei la stessa forza d’animo. Mi capita soprattutto però di pensare a chi non c’è più. In passato da bambina mi chiedevo come mai io fossi qui e loro no… mi sono sentita in colpa per tanto tempo, poi invece ho capito che dovevo vivere al mio meglio anche per loro. Non è stato facile però elaborare tutto questo. Quanto al “superare il tutto”, penso sempre a un concetto che mi aveva colpito e che mi rappresenta: una volta combattuta la malattia, inizia il vero percorso di “guarigione”. E questo richiede molto, molto, molto più tempo.»
Adesso, Deborah Ambrosini è una consulente d’immagine.
«Credo che quello che ho passato da piccola mi abbia in qualche modo portato a questo lavoro. Ho sempre avuto un rapporto di odio/amore col mio corpo e non riuscivo ad accettare tante cose di me. Una volta che ho conosciuto le consulenze d’immagine, mi sono innamorata prima dell’Armocromia e poi ho adorato l’analisi delle forme del corpo e del viso: è grazie a quest’ultima se ho capito che vado bene così come sono e che ogni persona ha delle caratteristiche e imparare a conoscerle e a valorizzarsi è importante per stare bene con sé stessi. Mi ha fatto sentire meglio con il mio corpo e scoperto di avere anche dei punti di forza. Spero di riuscire a trasmettere agli altri questa cosa e a guidare per imparare a regalarsi un sorriso in più davanti allo specchio.»
La 37enne chiude con un ringraziamento speciale.
«Mi fa piacere specificare quanto i miei genitori e tutta la mia famiglia mi siano stati vicino… la mia sorellina in particolare mi ha aiutato a vivere il tutto con più “normalità”, che è la cosa di cui di solito si sente più la mancanza. Non è facile, ma è il regalo più bello in alcuni casi: mettere da parte la malattia quando si può e trattare la persona il più normalmente possibile!»
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