La squadra sarda del rugby in carrozzina esordisce a Milano: l’emozione e le difficoltà della prima volta fuori casa
Le trasferte sportive sono sempre difficili, piene di aspettative ma anche incognite: ecco il racconto del team paralimpico Sardegna Sport (Sa.Spo) Cagliari dopo il primo match di rugby in carrozzina contro la squadra di Milano.
La felicità di vederli giocare e andare in meta disegna un quadretto indelebile, lasciando a mera statistica quel risultato di molto a poco che oltre ad essere stato messo in preventivo, non aveva alcun significato, a parte quello della prima volta assoluta.
In casa Sa.Spo si guarda con ottimismo al futuro della squadra di rugby in carrozzina: la trasferta romana è servita per capire capacità e limiti. Soprattutto diventerà essenziale punto di riferimento per i sette atleti che ora hanno un parametro su cui confrontarsi nello studiare forme e aspetti di una continua ricerca delle evoluzioni fisiche, tecniche e tattiche.
Tutti concordano, tra cui il presidentissimo Luciano Lisci, che la sfida persa con i vice campioni d’Italia della Polisportiva Milanese (76 – 10) sia stato un punto d’inizio non solo per i giocatori ma anche per lo staff presente negli impianti del Santa Lucia e composto dal dirigente Claudio Secci, dal meccanico Roberto Perra e dai tecnici Nicola Marcello, Dario Carrone e Sandro Floris (sono rimasti a casa, Carmelo Addaris e il vice presidente Antonio Murgia).
I rugbisti saspini hanno potuto sperimentare la pesantezza a livello fisico di una trasferta cominciata di primissimo mattino e conclusasi a notte fonda. Inoltre il caldo spaventoso li ha aiutati a convivere con determinate situazioni climatiche.
I forti lombardi si sono mossi in campo applicando degli automatismi che provano da oltre sette anni: il risultato rotondo porta la firma, tra gli altri, di ben quattro protagonisti della Nazionale guidata dal coach Franco Tessari, osservatore speciale nell’impianto che ha accolto il secondo concentramento del campionato italiano organizzato dalla FISPES (Federazione Italiana Sport Paralimpici e Sperimentali).
Ma la gioia della prima meta è stata incontenibile, per di più realizzata con eleganza e autorità da Salomon Menana Abaga Ocomo che poi ne ha realizzate altre 6, cui si aggiungono quelle del capitano Stefano Perra, Simone Melis e Fabio Sanna.
Le cose buone si sono viste, nonostante l’abbondante passivo. Il pool di allenatori saspini comincerà proprio da quelle, mettendo in chiaro però che se si vogliono raggiungere i livelli di Milano sarà necessario rivoltare come un calzino le abitudini quotidiane.
Coach Marcello, cosa dire di questo esordio?
Sono stati tutti bravi, nei limiti delle loro possibilità. Cresceranno sicuramente e già si sono intravisti parecchi miglioramenti. Simone Melis si allena sempre, Nanni ha fatto un buon avvio, Salomon dà l’esempio con una vita sana. E poi c’è Stefano, quello che sa stare meglio in campo, se lavorasse maggiormente sulla massa muscolare potrebbe dire tante cose.
Cosa ti ha colpito degli avversari?
Indubbiamente sul piano fisico erano molto più prestanti di noi. Per non parlare della differenza tecnica e tattica. Ci hanno messo in crisi sulla rimessa, sul marcamento di Salomon a cui era riservata una doppia agguerrita marcatura. Ci vuole tempo e dedizione per raggiungere quel livello.
Cosa altro hai visto in campo?
I nostri provavano a fare qualcosa. Sono emersi quelli che fisicamente stanno meglio. Tatticamente mi rimprovero di non aver indicato a due dei nostri di tenere il loro pericolosissimo numero 10. Però c’era anche il numero 3 molto forte: ho voluto provare con l’uno contro uno ma il miss-match era troppo evidente ed è andata palesemente male perché non riuscivamo ad allargarci verso il campo aperto.
Intanto dieci mete sono state realizzate.
Devo essere sincero: tutte le volte che ci siamo ritrovati nell’area avversaria qualche fastidio l’abbiamo dato perché non riuscivano a tenerci. Però sorpassare la nostra metacampo era sempre un’impresa.
Da dove ripartire?
Piano, piano cominciamo a correggere. Abbiamo verificato dei punti su cui andare a lavorare. Sicuramente ci concentreremo sulla forma fisica. Non eravamo in grado di competere con ragazzi che “fanno uno sport”.
E quindi?
A questo punto dipende molto da loro se vogliono fare gli atleti oppure coltivare semplicemente un hobby sportivo. Nel primo caso dovranno seguire una disciplina alimentare, mentale e fisica. Non basta una delle tre per sopperire le altre due. La vita d’atleta richiede molti sacrifici. E tanto, tanto da studiare ed imparare da parte mia e dello staff tecnico, gli errori non stanno mai da una parte. La squadra vince, la squadra perde.
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