Lo sapevate? Il melone in Sardegna esisteva già in epoca nuragica: ma era uguale o no al melone che mangiamo noi?
Nuovi indizi sul melone nuragico: a due anni dal primo ritrovamento, indagini genetiche e morfologiche forniscono nuove informazioni sui semi di melone più antichi del Mediterraneo. Nel 2015, la Banca del Germoplasma della Sardegna (BG-SAR), struttura facente parte del Centro
Nuovi indizi sul melone nuragico: a due anni dal primo ritrovamento, indagini genetiche e morfologiche forniscono nuove informazioni sui semi di melone più antichi del Mediterraneo.
Nel 2015, la Banca del Germoplasma della Sardegna (BG-SAR), struttura facente parte del Centro Servizi HBK (Hortus Botanicus Karalitanus) dell’Università di Cagliari, in collaborazione con il CSIC di Madrid, l’IVALSA-CNR di Sesto Fiorentino, le Soprintendenze per i Beni Archeologici della Toscana e della Sardegna e l’Università di Roma La Sapienza, pubblicarono uno studio sul contenuto dei pozzi di epoca nuragica, ritrovati nel 2009 nella località di Sa Osa, in provincia di Oristano.
Furono identificati centinaia di migliaia di semi, frutti, granuli pollinici e frammenti di legno e carbone di piante coltivate e selvatiche. Il ritrovamento di alcuni semi di melone fu uno dei risultati più interessanti, visto che fino ad oggi le prime evidenze dell’introduzione di questa pianta in Europa erano legate al periodo Greco-Romano. Questi semi risultarono essere molto antecedenti a tale epoca (1310–1120 a.C.) e costituiscono attualmente la testimonianza più antica del melone nel Mediterraneo. Le indagini morfologiche e genetiche, condotte in collaborazione con la Stazione Consorziale Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia (SSGS) e con l’Instituto de Conservación y Mejora de la Agrodiversidad Valenciana (COMAV) dell’Università Politecnica di Valencia, permettono ora di fornire maggiori dettagli su questi ritrovamenti.
È stata creata una vasta collezione di varietà tradizionali di melone proveniente da tutta Europa, Africa ed Asia, oltre che varietà autoctone della Sardegna. I semi di queste piante sono stati scansionati e genotipati utilizzando una piattaforma di 123 marcatori genetici. Si è poi proceduto all’analisi morfologica e genetica de semi di melone archeologici. Per quanto danneggiato, è stato possibile estrarre una quantità minima di DNA antico dai reperti utile per le analisi. Entrambe le analisi confermano alcune informazioni interessanti. In primo luogo che la pianta in questione apparteneva ad una specie coltivata e non selvatica, in secondo luogo che questi frutti erano ben lontani da quelli che troviamo attualmente sulle nostre tavole. Era una varietà non dolce, o moderatamente dolce, di un gusto simile al cetriolo, probabilmente simile ad alcune varietà locali coltivate oggi solo in ristrette regioni geografiche del Mediterraneo. In Italia si coltivano tradizionalmente soprattutto in Puglia, dove sono conosciute con decine di nomi volgari, come carosello, meloncella, e cummarazzo. Anche in Sardegna, in forma meno diffusa si coltivano tipologie con caratteristiche simili, chiamate a seconda dei casi facussa o cucummaru, più conosciute a livello nazionale con il nome di tortarello o melone serpente.
L’aspetto interessante è che questi dati concordano con alcune rappresentazioni pittoriche egizie del terzo millennio a.C. che rappresentano il melone in forma allungata tipo cetriolo e con la descrizione che ne fanno Columella e Plinio il Vecchio nel 1 secolo d.C. descrivendo il melone come un ortaggio da consumare in insalata. Rimane ancora poco chiaro quando e come si selezionarono le varietà da cui si originarono quelle dolci attuali, anche se si ipotizza che siano state importate dagli Arabi in epoca medievale. A tal proposito le analisi sono ancora in corso. Ancora una volta si è dimostrato la vitale importanza della salvaguardia delle varietà “antiche” appartenenti a ciascun territorio, un bacino genetico fondamentale da preservare per le future generazioni.
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