Lou di Franco: la cantante di Terralba per metà villagrandese che fa impazzire la Francia
Lou di Franco, giovane cantante per metà di Villagrande e per metà di Terralba, da anni in Francia, ha all’attivo diversi EP. Le sue canzoni, molto conosciute a livello internazionale, sono ricche di emozione. Importanti novità sono previste per il
Lou di Franco, giovane cantante per metà di Villagrande e per metà di Terralba, da anni in Francia, ha all’attivo diversi EP. Le sue canzoni, molto conosciute a livello internazionale, sono ricche di emozione. Importanti novità sono previste per il 2018. Canta spesso della nostra isola, quella stessa terra che le manca moltissimo e nella quale ha lasciato il cuore.
Tra sogni e aspettative. Da cosa è scaturita la decisione di partire?
Da bambina avevo due sogni: diventare una rockstar e imparare tante lingue e perché no, insegnarle. Per quanto riguarda le lingue avevo già un po’ di fortuna in quanto sarda e bilingue, impararne una terza sarebbe stato semplice ed è così che mi sono ritrovata all’estero. Prima sono stata a Berlino ma io e gli italiani che sfruttano i sardi in Germania non ci siamo tanto amati, allora dopo qualche anno di università a Cagliari sono partita in Francia, per Erasmus, e ho trovato il modo di realizzare i miei due sogni, ho terminato gli studi qua, ho insegnato e mi sono resa conto che più che un sogno era un incubo, per me in ogni caso. Allora ho cercato di realizzare l’altro sogno. Ora effettivamente non faccio rock, che diciamocelo, non vuol dire niente, e tantomeno sono una star, ma vivo della mia musica, e per me è già un grandissimo risultato.
La piccola Lou era già appassionata di musica? Potresti dirci come è nato questo amore? Come si è evoluto?
Ho ancora una foto di quando avevo due anni mentre cercavo di creare delle canzoncine con la chitarra di mio padre, che era più grande di me. Avendo vissuto per anni non solo con i miei genitori ma anche con i miei nonni e miei zii ho avuto accesso a tantissimi stili di musica. Dal rock progressivo degli anni 70 che ascoltava mio padre, al glam, hard rock et heavy che ascoltavano gli zii, alla pop delle zie, passando per la musica folk che ascoltavano i miei nonni e che soprattutto sentivo suonare e cantare dal vivo da mio zio Santino ogni volta che passavo un po’ di tempo a Villagrande. Insomma, ho passato tutta la mia infanzia e adolescenza tra melomani e musicisti e non penso aver passato una sola giornata della mia vita senza ascoltare un po’ di musica. Allora ho cominciato a farla, prima come cantante e bassista in un gruppo punk, poi cantante in un gruppo di metal prog (ma questa esperienza è durata veramente pochissimo), poi quando sono arrivata in Francia ho iniziato a interessarmi al jazz ed è così che ho incontrato Jérôme Broyer con cui ho creato il mio attuale progetto.
Come è la tua musica adesso?
La mia musica adesso è il risultato di tutto quello che ho ascoltato sino ad ora. Alcuni hanno difficoltà con il fatto di non riuscire a darmi un’etichetta, per me è piuttosto un orgoglio. Il mio obiettivo è di fare una musica che mi corrisponde ma che sia il più universale possibile, e se riesco allo stesso tempo a parlare dei problemi e delle ricchezze della mia terra è ancora meglio.
Cosa bolle in pentola? Come sono andati gli album precedenti?
Per ora ho pubblicato due EP, il primo, prodotto da Didier Grebot (direttore scenico di Zaz), intimo e tutto acustico in trio chitarra, voce e contrabbasso, con sonorità ispirate al jazz. Il secondo si chiama “Le goût des mots” inizialmente autoprodotto poi ripreso da Youz prod e distribuito da Harmonia Mundi. Con questo EP ho avuto tantissime soddisfazioni, playlist in diverse radio nazionali in Francia, Germania (dove inoltre i ragazzi delle scuole medie che fanno francese studiano uno dei miei pezzi) Svizzera e ancora una decina di altri paesi in giro per il mondo. Ma una delle più grandi soddisfazioni che mi ha dato questo disco è che mi ha permesso di cantare “una tanca” (ke a sos bascos e ke a sos irlandesos) in live in una delle radio più importanti in Francia. In questo momento sto preparando un nuovo EP che dovrebbe uscire nei primi mesi del 2018. E naturalmente sto organizzando la tournée per promuoverlo.
Cosa provi quando hai tra le mani la tua creazione, quando sai che la tua arte ispirerà e appassionerà qualcun altro?
È commovente tenere l’oggetto finito tra le mani per la prima volta. Ho sempre considerato che la creazione di un disco è un po’ come far crescere un bambino. Nasce da un’idea, un incontro, e una volontà di scambio. Hai passato dei mesi a crearlo, farlo crescere, ci hai lavorato su tra gioie e sforzi enormi e quando è pronto a affrontare il mondo lo lasci andare avanti da solo. Non ho la pretesa di ispirare qualcuno con la mia musica, di solito appena finisco di scrivere una canzone la canto, e se non riesco a cantarla per intero perché le lacrime mi spezzano la voce, in quel momento mi dico che sarà una buona canzone. La mia musica deve prima di tutto emozionare me, certo se poi fa lo stesso effetto agli altri è ancora meglio.
Cosa senti quando sei sul palco? Agitazione, emozione, ansia, paura, felicità? Che rapporto hai con i tuoi fan?
Non riesco a immaginare la mia vita lontana dal palco. È un po’ come una droga. Anche se a volte capita che prima che lo spettacolo inizi ti chiedi chi te l’ha fatto fare e perché hai scelto di metterti in “pericolo” in questo modo, è difficile smettere, e se stai lontano dal palco per troppo tempo rischi crisi di astinenza. Poi quando sei sul palco e vedi il pubblico che sta lì ad ascoltarti, sorridente, attento, emozionato, come si fa a rinunciare a una cosa del genere? Non penso di avere dei fan, del resto che brutta parola, un fan è un fanatico, mi farebbe paura. Ho delle persone che apprezzano la mia musica, che mi seguono, che vengono a vedermi in concerto, alcuni vengono veramente a tutti i concerti e a un certo punto finisco per considerarli un po’ come degli amici.
Ispirazione: come e quando arriva? Hai dei rituali che riguardano un determinato tempo o spazio?
Solitamente i miei pezzi sono scritti a quattro mani con Jérôme Broyer. Quando uno dei due ha un’idea, un’espressione, una frase, la mettiamo in comune e la decliniamo per farne un testo. In realtà per me non è ancora semplicissimo scrivere in francese ma fortunatamente ho Jérôme per correggere i miei strafalcioni. Le parole e la musica vengono spesso allo stesso momento, sfruttiamo la musicalità del testo e il fatto di vivere sullo stesso tetto, con a disposizione uno studio di registrazione e tutti gli strumenti di cui abbiamo bisogno, è perfetto per comporre. È un po’ una trappola perché rischi di lavorare 24 ore su 24, ma non mi lamento, anzi penso che non potrei vivere diversamente.
Che artista ti definiresti? Qualche parola per descriverti.
Ho soprattutto scrupoli a definirmi artista. E ho molte difficoltà a descrivermi. Gli altri quando parlano della mia musica dicono che è dolce, appassionata e eclettica, quando parlano di me come persona dicono soprattutto che sono “barrosa”, e non c’è altro modo di dirlo se non in sardo.
Come è andata una volta arrivata a Parigi, artisticamente parlando?
Parigi è una giungla. La Francia sfortunatamente è soggetta a una spietata centralizzazione della cultura. Sembra che se non stai a Parigi non esisti. Io ho deciso di vivere in un paesino nella campagna della Borgogna, lontana dal caos della capitale. La vita è più semplice, fare musica è più semplice, a casa mia posso suonare la batteria sino alle 7 del mattino se mi va, a Parigi sarei costretta ad affittare una sala prove a dei prezzi impossibili e orari limitati. Qua in Borgogna c’è un bel vivaio di musicisti, e alcuni di essi sono diventati un po’ come una seconda famiglia. A Parigi poi la concorrenza è feroce. Se ho deciso di fare della musica il mio mestiere è perché penso che sia un modo di incontrare altre persone e di avere con esse degli scambi costruttivi. Parigi, certo, offre tantissime opportunità ma anche tantissimi ostacoli, è una bella vetrina, ma secondo la mia esperienza è meglio cercare di farsi conoscere nel resto della Francia per poi entrare a Parigi e non il contrario.
Un consiglio per i giovani che hanno una passione.
Lavorare tantissimo, senza contare le ore, diversificare le competenze e soprattutto essere aperti e disponibili. Stare con i piedi per terra. Ormai esistono tantissimi musicisti ma quelli che se la cavano meglio oltre al talento hanno in più il lato umano. Non aver paura di fare dei compromessi e di accettare dei consigli cercando di mantenere una certa autonomia, l’equilibrio tra queste due cose è essenziale. In ogni caso, l’unica cosa da fare quando si ha una passione è viverla fino fondo.
Ti manca la Sardegna?
Tutti i giorni. Lasciare la famiglia e gli amici, e spesso perdere i contatti con questi ultimi per via della lontananza, sono una dura prova. Ma ho l’impressione che ci sia qualcosa di più profondo che è difficile da definire e che mi lega visceralmente alla nostra isola. Essere emigrati è un po’ come essere sradicati, per questo il termine “disterru” è perfetto per esprimere la nostra condizione. Quando vedevo gli altri partire, per cercare lavoro altrove, perché in Sardegna non riuscivano a trovare niente, per me era un dramma, non ho mai vissuto l’emigrazione come qualcosa di entusiasmante, neanche quando era previsto un rientro. Quello che più mi fa soffrire è la sensazione di aver abbandonato la Sardegna, un vero e proprio senso di colpa. Leggere ogni giorno dei soprusi che il nostro popolo subisce e l’incapacità di trovare una soluzione mi spezza il cuore. Per fortuna ci sono delle persone che son rimaste, e che lottano ogni giorno, per loro ho una grandissima stima e gratitudine e spero di poterli raggiungere un giorno. Vorrei trovare il coraggio di lasciare tutto quello che ho costruito qua e tornare a casa per contribuire, nel mio piccolo, a creare un futuro migliore per la nostra terra.
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