Lo sapevate? La celeberrima battuta di Totò “Siamo uomini o caporali” è ispirata a una persona realmente esistita

La parola "caporale" per Totò era uno degli insulti più brutti da indirizzare a un altro uomo. Fra le frasi di Totò che hanno segnato la cultura popolare italiana, «Siamo uomini o caporali?» è quella dalla storia più profonda e complessa. Come nacque questo modo di di dire così tipico del Principe della Risata?
Lo sapevate? La celeberrima battuta di Totò “Siamo uomini o caporali” è ispirata a una persona realmente esistita.
La parola “caporale” per Totò era uno degli insulti più brutti da indirizzare a un altro uomo. Fra le frasi di Totò che hanno segnato la cultura popolare italiana, «Siamo uomini o caporali?» è quella dalla storia più profonda e complessa. Come nacque questo modo di di dire così tipico del Principe della Risata?
Bisogna ritornare indietro agli anni per poi arrivare a un momento preciso della sua vita, quello in cui il giovane Antonio si arruolò militare, durante la Prima Guerra Mondiale.
Dopo vari trasferimenti e dopo aver utilizzato le sue doti attoriali per fingersi epilettico e non partire al fronte in compagnia di alcuni soldati marocchini, Totò fu assegnato all’88° Reggimento Fanteria “Friuli” di stanza a Livorno, e conobbe il famoso caporale, poi citato nella battuta. Pare che il graduato fosse particolarmente fastidioso e malvisto da tanti, ma soprattutto con Totò. Con il giovane attore il caporale si accanì in modo particolare, rendendolo oggetto di soprusi e bassezze decisamente gratuiti, insultandolo di continuo e assegnandolo ai servizi più umili. Da allora per Totò, un caporale non è un uomo, ma una persona infame. Una persecuzione che aumentò giorno dopo giorno e che fece di quell’uomo «il simbolo della prevaricazione dei forti nei confronti dei più deboli: il massimo della vigliaccheria e della cattiveria». Più l’indifesa vittima si mostrava remissiva, ubbidiente, più il capo la tormentava. «Ai caporali – scrisse Totò – contrapposi gli uomini, ossia le persone per bene, capaci anche di esercitare la loro autorità, se ne hanno, senza abusarne».
L’espressione nacque come motto teatrale e fu poi la battuta finale del film “L’imperatore di Capri” (1949), oltre ad essere pronunciata, nello stesso anno, in “Totò le mokò”. Nel breve libro che Antonio De Curtis scrisse insieme ad Alessandro Ferraù nel 1951, intitolato proprio “Siamo uomini o caporali?”, il Principe spiegò l’origine di quell’interrogativo così ricorrente.
Siamo uomini o caporali divenne poi il titolo di un film del 1955 diretto da Camillo Mastrocinque.
“Siamo uomini o caporali?” (il punto interrogativo fu aggiunto alcuni anni dopo, forse per smussarne il messaggio estremo) ebbe un’accoglienza clamorosa: con i suoi cinque milioni di spettatori e un incasso di 730 milioni di lire (circa dieci milioni di euro attuali) è il quarto film di maggior successo della storia di Totò. Inutile dire che fu invece guardato con sospetto dalla critica di allora, che non ne apprezzò la commistione, ritenuta frettolosa, fra realismo, commedia e farsa.
Il protagonista, Totò Esposito, come riporta un articolo di Quattrocolonnenews, è un pover’uomo sempre tradito dalla vita. Condotto di fronte a uno psichiatra dopo aver reagito con violenza all’ennesimo sopruso, racconta al medico tutte le sue sfortune. Mentre si traveste per saltare la fila di un negozio di alimentari, viene catturato dai fascisti e rinchiuso in un campo di concentramento tedesco, da dove riesce a fuggire insieme a Sonia, un’internata di cui è innamorato. Quando arrivano a Roma, la città è appena stata liberata, ma per Totò le ingiustizie non sono finite. Verrà umiliato da un colonnello americano, raggirato da un giornalista senza scrupoli e infine sconfitto in amore da un imprenditore lombardo, che sposa la sua amata Sonia.
Tutti i personaggi negativi sono interpretati da Polo Stoppa, a significare che i prepotenti della vita, in fondo, non cambiano mai. Il copione originale comprendeva anche un “caporale” comunista, ma questo episodio fu tagliato dalla censura dell’Ufficio centrale per la cinematografia, all’epoca retto da Annibale Sciclunga Sorge. Sopravvisse al “visto”, invece, la frase «si stava meglio quando si stava peggio», entrata nell’uso comune per descrivere l’eterna insoddisfazione per l’oggi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA