Alle origini della musica napoletana

È evidente che molto prima della canzone "borghese", la melodia era principalmente una questione popolare. Questo è stato il caso fin dalle origini, in una città dove la sirena spiaggiata fu la prima a cantare e incantare. Tutto ebbe inizio da lì, dalla voce seducente di Partenope. Anche se si suicidò perché Ulisse non volle ascoltare le sue note, ha comunque lasciato un'eredità destinata a durare in eterno.
Alle origini della musica napoletana.
È evidente che molto prima della canzone “borghese”, la melodia era principalmente una questione popolare. Questo è stato il caso fin dalle origini, in una città dove la sirena spiaggiata fu la prima a cantare e incantare. Tutto ebbe inizio da lì, dalla voce seducente di Partenope. Anche se si suicidò perché Ulisse non volle ascoltare le sue note, ha comunque lasciato un’eredità destinata a durare in eterno.
Le tammurriate, tipiche dell’entroterra rurale, sono un retaggio della musica dell’antichità, in particolare romana. Esse sono canzoni eseguite dalle paranze con il tamburo, accompagnate da balli sfrenati, a ritmi tribali, da uomini e donne. Questa musicalità è spesso legata al sacro, come dimostrano i pellegrinaggi in onore delle diverse Madonne campane, che vanno dalla Madonna dell’Arco a quella di Montevergine, passando per quella delle Galline di Pagani. Queste celebrazioni rinnovano ciò che accadeva secoli prima in onore di Demetra, dea delle messi. In antichità, era associato a questo culto della madre terra un ballo con l’uso di un tamburo molto simile all’attuale tammorra. Per crederci, basta osservare alcuni affreschi di Pompei custoditi al Museo Archeologico Nazionale.
Questi affreschi ci mostrano come il tamburo venisse percosso a mano nuda, rivelando la profonda connessione tra la musica e l’essenza stessa della vita. Le note riecheggiavano tra le strade e le piazze, risvegliando l’anima della comunità e richiamando un senso di unità e celebrazione. La melodia trascendeva i confini sociali e si diffondeva tra le persone, diventando un linguaggio universale capace di comunicare emozioni profonde.
Così, nel corso dei secoli, la tradizione musicale ha continuato a evolversi, mescolando influenze e stili diversi. Dalle antiche tammurriate, si sono sviluppati nuovi generi musicali che hanno attraversato le epoche, mantenendo viva l’anima della musica popolare. Oggi, la musica partenopea continua a vivere, trasmettendo il suo fascino e la sua vitalità in ogni nota, in ogni rullo di tamburo.
È un’arte che riflette la storia e la cultura di una terra ricca di tradizioni, di passione e di amore per la musica. Le canzoni partenopee, con le loro melodie accattivanti e i testi ricchi di emozioni, ci trasportano in un mondo di sentimenti profondi e di gioia condivisa. Esse ci ricordano che la musica è un patrimonio collettivo, capace di unire le persone e di donare un senso di appartenenza.
Quindi, anche se le origini della melodia possono essere ritrovate nelle profondità della storia antica, la musica partenopea è ancora viva e vibrante, portando avanti un’eredità destinata a risuonare per sempre nei cuori e nelle anime di coloro che la ascoltano.
Nelle profonde radici della cultura napoletana, si risvegliano antiche festività che univano i contadini alla venerata Cerere, la mitica dea della fertilità. I Cerealia, festeggiamenti che si svolgevano in primavera, coincidendo con la rinascita della natura, erano particolarmente cari a quelle comunità. In questo contesto, il potere generativo del canto era strettamente associato al principio sacro femminile. Non a caso, i culti di Demetra/Cerere e di Partenope si intersecarono nel corso del tempo, creando un legame profondo tra di loro.
Le Madonne cristiane, indipendentemente dal colore che assumessero, vennero ad occupare un posto di rilievo nelle tradizioni locali, ma in realtà sostituirono, con una lentezza di adattamento che conservava tracce delle antiche ritualità pagane, pratiche che affondavano le loro radici nelle terre che circondano il Vesuvio.
La poesia delle tammurriate, caratterizzata da distici endecasillabi, viene abilmente declamata dai cantori, soprattutto se di voce maschile. Uno dei brani più celebri è la tammurriata nera, che, sebbene non sia di origine popolare, fu composta da E. A. Mario nel 1944, ispirandosi al fenomeno dei cosiddetti “figli della guerra”. Questi bambini di colore erano il risultato di relazioni tra le donne napoletane e i militari americani che occupavano la città.
La tammurriata nera, con la sua melodia coinvolgente e le parole evocative, racconta le vicende di una generazione nata in un contesto complesso e in rapida trasformazione. Attraverso la musica, si esprime la lotta, la sofferenza e la speranza di coloro che affrontano le sfide della vita. È un inno alla resilienza e alla capacità di adattarsi, mescolando influenze culturali e sperimentando nuove forme di espressione artistica.
Tuttavia, le tammurriate non si limitano a un unico brano. Esse abbracciano una vasta gamma di tematiche, dalla gioia contagiosa delle feste popolari alla nostalgia delle tradizioni perdute, passando per l’amore, la passione e la protesta sociale. Ogni tammurriata è un racconto, una finestra aperta sulle emozioni e sulle esperienze della vita quotidiana.
La tammurriata, con la sua profonda connessione con le radici culturali della regione, continua ad essere una forma di espressione viva e vibrante. Attraverso i secoli, ha subito evoluzioni e adattamenti, ma ha sempre mantenuto la sua essenza e il suo impatto emotivo. È un richiamo alla memoria collettiva, una testimonianza della forza della musica nel connettere le persone e nel trasmettere l’eredità di una cultura ricca di storia e tradizioni.
La tarantella, diversa dalla tammurriata, ha origini pugliesi ed è strettamente legata alla tarantola, il grande ragno il cui morso poteva essere esorcizzato solo attraverso una danza sfrenata. Qui troviamo un’altra eredità del passato: i riti orgiastici in onore di Dioniso, ampiamente venerato anche in Campania. Questa particolare forma di musicalità serviva a dissipare la malinconia che si diffondeva nell’animo delle giovani donne, ritenuta causa del veleno inoculato dalla tarantola.
Durante l’estate, bande di musicisti giravano per le campagne pugliesi con l’intento di aiutare le donne morse dal ragno. Essi creavano ritmi adatti a ogni tipo di crisi; c’era la taranta di Taranto e quella di Napoli, la taranta a cinque tempi, la taranta turchesca o l’ottava siciliana. Ma l’obiettivo rimaneva lo stesso per tutte: un vero e proprio esorcismo attraverso la musica.
È certo che anche all’ombra del Vesuvio si praticava un ritmo per guarire i “calati” dal morso del ragno, anche se probabilmente ha preso il posto delle danze bacchiche in onore di Priapo o Dioniso durante le celebrazioni di Piedigrotta. Un esempio di ballo eseguito al ritmo della tarantella è quello di Pulcinella a cavallo della Vecchia Carnevale, un’antica tradizione che vedeva il passaggio dell’anno vecchio al nuovo, non priva di allusioni oscure e connotazioni erotiche, grazie ai movimenti dei due personaggi.
La tarantella, con il suo ritmo travolgente e i suoi movimenti vivaci, rappresenta una forma di liberazione e di espressione dell’anima. Attraverso il ballo, le persone trovavano una via di fuga dalla sofferenza e un modo per superare le avversità della vita. È un’esperienza collettiva, in cui le comunità si riunivano per celebrare la vitalità e la forza interiore.
Oggi, la tarantella continua a vivere nelle tradizioni popolari, evolvendosi nel corso del tempo e adattandosi alle influenze culturali moderne. La sua energia contagiosa e la sua capacità di coinvolgere le persone trasmettono un senso di gioia e di unione. È un richiamo alle radici culturali profonde e al potere curativo della musica e della danza.
La tarantella rappresenta un legame tangibile con il passato, una testimonianza di antiche credenze e pratiche che ancora persistono nelle tradizioni delle comunità italiane. È un’arte che celebra la vita, la libertà e l’essenza stessa della cultura popolare.
Hai mai sentito parlare del canto a fronna ‘e limone? Si tratta di un’antichissima tradizione, menzionata persino nel Satyricon di Petronio. È una singolare forma di canto esteso, senza restrizioni ritmiche, eseguita generalmente senza accompagnamento musicale. Si tratta dei vocalizzi dei venditori ambulanti di frutta e verdura, delle voci che echeggiano nei mercati, durante le mietiture o le vendemmie. Chissà se il suo nome non derivi proprio da un anonimo venditore di agrumi.
Un po’ diverso è il canto a ffigliola, una forma di improvvisazione melodica libera, nata principalmente in onore di Mamma Schiavona, la Madonna di Montevergine. Secondo la leggenda, lei era considerata la più brutta tra le sette sorelle, le Vergini della Campania. Proprio per questo motivo, si ritirò sulla collina, dichiarando che la avrebbero dovuta cercare se volevano vederla. Non è un caso che nel mese di settembre, centinaia di devoti salgano sulla “muntagna fresca”, già sacra a Cibele e a Virgilio, per rendere omaggio alla madre nera del Salvatore.
Queste tradizioni musicali sono un legame vivo con il passato, con le radici profonde della cultura campana. Attraverso il canto a fronna ‘e limone, si può percepire l’energia e l’autenticità del popolo, i suoni che risuonano nelle piazze e nelle strade. È come un richiamo melodico alla vitalità e alla freschezza della frutta e della verdura, portando con sé la gioia e la vivacità della tradizione contadina.
Il canto a ffigliola, d’altra parte, è un’espressione di devozione e di amore per la Madonna di Montevergine. Con la sua melodia improvvisata, porta con sé l’essenza delle leggende e delle storie tramandate nel corso dei secoli. È un omaggio alla bellezza nascosta e alla forza interiore, rendendo omaggio a una figura sacra che continua ad ispirare i cuori dei devoti.
Queste tradizioni musicali rappresentano una parte preziosa del patrimonio culturale campano, testimoniando la ricchezza e la diversità delle espressioni artistiche della regione. Sono frammenti di una storia antica, che si intreccia con la vita quotidiana e che si trasmette di generazione in generazione. Attraverso il canto e la musica, si perpetua l’eredità dei nostri antenati, portando avanti l’anima e la passione di una terra che vibra al ritmo delle sue tradizioni.
Una particolarità singolare, indirettamente collegata a uno dei culti più antichi di Napoli, è il primo canto “moderno” nato all’ombra del Vesuvio. Questo canto è incluso in una raccolta di versi del Quattrocento, scoperta nel codice 1035 della Biblioteca Nazionale di Parigi, ed è il celebre Jesce sole, intonato dalle lavandaie del Vomero fin dal Duecento. Più che un semplice canto, è una sorta di preghiera, un’invocazione all’astro per eccellenza affinché spunti e asciughi il bucato al termine della notte più lunga dell’anno, quella di Santa Lucia. È evidente che, alla fine, si tratta di un omaggio a un rituale antico, se consideriamo che Apollo, il dio del Sole, era particolarmente venerato nella Neapolis delle origini.
Da quel canto in poi, attraversando villanelle, moresche, madrigali, melodrammi e opere buffe, l’eredità melodica di Partenope è giunta fino a noi sana e salva. È una testimonianza della ricchezza e della continuità della tradizione musicale partenopea. Nel corso dei secoli, questa musica ha attraversato diverse epoche, adattandosi e arricchendosi di nuove influenze e stili, ma mantenendo sempre l’anima e l’essenza delle sue radici antiche.
Le melodie che risuonano nelle strade e nelle piazze di Napoli portano con sé la storia di una città che è stata crocevia di culture e influenze artistiche. L’eredità musicale di Partenope è un tesoro prezioso che ci permette di riconnetterci con le radici della nostra identità culturale. Attraverso le note e i versi, possiamo percepire l’anima di un popolo, le sue gioie, le sue passioni e le sue lotte.
La musica napoletana ha un potere unico di emozionare e coinvolgere le persone. Le sue melodie evocative e i testi intensi ci conducono in un viaggio attraverso le emozioni umane, dalla gioia all’amore, dal dolore alla speranza. È una forma di espressione che supera le barriere linguistiche e culturali, un linguaggio universale che parla direttamente al cuore.
Così, attraverso i secoli, la musica di Partenope è sopravvissuta, nutrendosi delle esperienze e delle influenze dei suoi interpreti e dei suoi ascoltatori. È un patrimonio collettivo che appartiene a tutti coloro che amano la musica e che riconoscono il valore di preservare le tradizioni. Nelle sue note risuona la vitalità di una città e la passione di un popolo, portando avanti l’eredità melodica di Partenope per le generazioni future.
Lo sapevate? Di che cosa si compone il tesoro di San Gennaro?

Si tratta di una tra le collezioni più ricche del mondo ed è custodita in un piccolo museo adiacente al Duomo di Napoli. Scopriamo di quali e quanti gioielli è composto il tesoro di San Gennaro.
Lo sapevate? Di che cosa si compone il tesoro di San Gennaro?
Si tratta di una tra le collezioni più ricche del mondo ed è custodita in un piccolo museo adiacente al Duomo di Napoli. Scopriamo di quali e quanti gioielli è composto il tesoro di San Gennaro.
È una delle collezioni più ricche del mondo assieme alla Corona d’Inghilterra e al Tesoro dello zar di Russia: è il Tesoro di San Gennaro custodito in un piccolo ma prezioso museo attaccato al Duomo di Napoli.
Un luogo ricco di storie particolari, un bene culturale di alto valore storico artistico, e spirituale. Il Museo del tesoro di San Gennaro sta negli anni diventando uno dei luoghi preferiti da turisti e cittadini napoletani per la sua straordinaria ricchezza e testimonianza. Custodisce le numerose e bellissime opere appartenenti al Tesoro di San Gennaro e la pregevole Sacrestia con gli affreschi, tra gli altri, di Luca Giordano ed i dipinti del Domenichino e di Massimo Stanzione. Antichi documenti, oggetti preziosi, argenti, gioielli, dipinti di inestimabile valore, facenti parte del Tesoro di San Gennaro che, nel corso dei secoli, sovrani, papi, uomini illustri o persone comuni hanno donato per devozione al Santo. Visitabili tra gli altri oggetti, i busti d’argento dei compatroni che accompagnavano la processione di San Gennaro, il reliquario del sangue donato nel 1305 da Carlo d’Angiò e che ancora oggi trasporta le ampolle del sangue in processione. Al secondo piano si accede alle Sacrestie, mai aperte al pubblico per quattro secoli e che oggi, grazie al museo, è possibile ammirare in tutta la loro straordinaria bellezza con i marmi pregiati, i dipinti di Massimo Stanzione, di Dominichino, di Luca Giordano.
Tra i più ammirati ci sono i leggendari gioielli che si aggiungono all’ esposizione permanente degli argenti del Museo del Tesoro di San Gennaro. L’allestimento è ricercato e ben studiato, dal buio delle sale emergono solo le luci splendenti dei gioielli più preziosi del mondo. Tra questi di certo il più particolare e il più famoso è la mitra gemmata, tipico copricapo vescovile, realizzata nel 1713 dall’orafo Matteo Treglia su commissione della Deputazione.
Lascia ogni visitatore a bocca aperta per la magnificenza e lo splendore che emana.
Come sappiamo, la Deputazione del Tesoro di San Gennaro nacque nel 1601 come istituzione per amministrare tutti i beni e le offerte che il popolo napoletano donava al Santo Patrono. In questo caso, si tratta di un pezzo unico nel campo dell’oreficeria: ben 3694 pietre preziose, tra cui 168 rubini e oltre 3000 diamanti, per un peso totale di 18 Kg. La scelta delle pietre che decorano il copricapo non è assolutamente casuale, infatti ciascuna di essa ha un significato ben preciso: gli smeraldi sono simbolo della conoscenza; i rubini simboleggiano il sangue del Santo e i diamanti la fede.

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