Lo sapevate? Il poeta Enrico Costa scrisse una poesia per ognuna delle 12 città della Sardegna. Eccole

Ecco quelle che Costa definì le 12 "Vignette all'acqua forte", non nascondendo l'intento satirico dell'affresco compiuto per ognuna.
Enrico Costa è stato uno dei massimi poeti sardi a cavallo del XIX e XX secolo. Sassarese doc ha raccontato la Sardegna nei suoi versi, tracciando un profilo dell’Isola non privo di ironia.
Tra le sue opere c’è sicuramente da ricordare i 12 sonetti sulle 12 città della Sardegna, inserite nella raccolta “In Autunno” pubblicata nel 1895. Lo scrittore descrive i principali centri abitati dell’Isola dell’epoca, quelli in cui era presente una prefettura, Cagliari, Sassari, Oristano, Nuoro, Iglesias, Alghero, Tempio, Lanusei, Ozieri e Bosa, più Porto Torres e Castelsardo (aggiunte successivamente).
Ecco quelle che Costa definì le 12 “Vignette all’acqua forte”, non nascondendo l’intento satirico dell’affresco compiuto per ognuna.
CAGLIARI
Monarchia, bigotta, festaiuola,
in cerimonie larga e in cortesia,
nel mar si specchia, e fa la civettuola
tra i rigattieri e l’aristocrazia.
Sui balconi foggiati alla spagnola,
tra i fiori e la distesa biancheria,
stan le fanciulle e scambian la parola
con chi langue d’amore in su la via.
E mentre a San Remy va in processione
la gente a passeggiar, spende e gavazza
laggiù al mercato il popolo ghiottone.
Già ligia ai Vicerè, Cagliari or cozza
con chi vuol la Madonna in una piazza
E sant’ Efisio dentro una carrozza.
SASSARI
Fiera, nervosa, cinica, mordace,
circondata di fonti e dolci rivi,
l’agricola città prostesa giace
sovra un letto di pampini e d’ulivi.
Non scordò mai, repubblicana antica,
che la sua culla è in Sant’Appolinare;
Tutto sprezza, oderide – e fu nemica
di quante terre cinge il sardo mare.
Gentil non è – t’insulta il suo monello,
ti rutta in viso il rozzo zappatore,
e t’urta l’asinel che va a Rosello.
Madrigna ai figli, e d’animo beffarso,
del mondo Ella s’infischia; ed apre il core,
più che ad Azuni, ai cavoli col lardo.
ORISTANO
Tra i fichi d’India, in un torpor letale,
Immersa par l’indolente Signora…
Dorme lo stagno… e in alto sbatton l’ale
Le cornacchie, gracchiando ad ora ad ora.
E mentre il Tirso minaccioso sale
Ai tuguri di fango, i Santi implora
E per amor di Dio sopporta il male
La chittà di Mariano e d’Eleonora.
Per gli arsi campi, scalzo e raso in faccia,
Trotta il servil paesano – e a Ponte Manno
Van le servotte a farsi corteggiare.
Buoni amaretti, muggini, e vernaccia
T’offron gli amici: e obliar così ti fanno
Le malariche febbri e le zanzare.
ALGHERO
A’ suoi bastioni ridente s’affaccia
La ciarliera città, balda ed arguta;
E dall’antro regal di Capocaccia
La vagheggia Nettuno e la saluta
Nudrice a Manno, ai bagnanti ristoro,
Ricca è Alghero di pulci e di corallo;
Ha i palmicci, le angurie, i pomidoro,
E molti cavalier senza cavallo.
Ne le alterne vicende di sua vita
Non scordò mai che Catalana nacque,
Che Carlo Quinto la chiamò bonita.
Fu grande; – oggi però, la sfortunata,
In mezzo al mare è sitibonda d’acque,
E in mezzo a le sue piante Ell’è spiantata.
IGLESIAS
Gravida di metalli; mantenuta
Dal ricco Monteponi e da Masua;
Distratta, accidiosa, e ben pasciuta,
Ell’è tranquilla ne la Reggia sua.
Con Alfonso e Ugolin fe’ la signora,
Ma disdegna blasoni e fatua lode…
Dorme or, l’inerte! – e per altrui lavora
La sorda lima che il suo ventre rode.
Nel dì di festa vengon tutte fuori
le donne in cuffia, e gettano furtive
occhiate agl’ingegneri e ai minatori.
Non udendo altra voce che il rimbombo
De le sue mine, in pace Iglesias vive
Col cor di pietra e i visceri di piombo.
BOSA
Cinta d’ulivi, in mezzo a la verzura,
Carezzata dal Temo, al mar vicina,
S’adagia Bosa in delicata altura
Sotto il fiero castel dei Malaspina.
Per sudiciume s’ebbe un dì censura:
Or si lava la faccia ogni mattina;
Un dì perplessa: or corre a dismisura
A un porto, che fun già la sua rovina!
Per ville e borghi, ardito, volge i passi
L’errante e industre cittadin di Bosa
Per tutto barattar… persino i sassi.
O città, che al gran volo spieghi l’ale,
Se per fichi e carcioffi sei famosa,
Per debiti sci grande ed immortale!
OZIERI
Nell’imbuto che forman sei colline,
Neglettamente altera, Ozieri posa;
Ha vie mal lastricate, acqua famosa,
E case con terrazzi a colonnine.
Le mani in tasca, e a passi gravi e lenti,
Passeggia in Cantareddu l’ozierese,
E parla de le lanche e de’suoi armenti
Mentre aggiusta il berretto a più riprese.
Vestite a bruno, snelle e pallidette,
Van le serve all’aperto co’ catini
Nell’ora che il desio volge al tresette.
Taccion le vie – ma un bisbiglio, un sussurro
Continuo s’ode: – nel caffè Martini
Gioca alle carte la città del burro!
TEMPIO
Nipote ai Corsi, e figlia di Gallura;
Or cupa sospettosa, or spensierata;
Là, di Limbara al piè, fra grige mura,
Siede Tempio di quercie incoronata.
Uomini ha fieri, dèditi a le liti;
Ha donne belle, facili ai puntigli.
Salda negli odj come i suoi graniti,
A vendetta educò tutti i suoi figli.
E mentre a lavar l’onte ella s’appresta,
Vengon folate di voci argentine
Dal gajo verde de le vigne in festa.
Nei canti arguta, dimessa nei drappi,
Apre agli ospiti il core e le cantine;
E a tutti vino dà, salami, e … tappi!
NUORO
Figlia de la montagna, e madre amata
Di figli irrequieti e turbolenti
In balìa di sè stessa è abbandonata
la città de le lotte e dei lamenti.
Ha vini che stramazzano un beone;
ed uomini più forti assai del vino;
A lei donò il Governo una prigione,
E la natura un sasso ballerino.
Amor fornì le donne d’un corsetto,
Che chiuder finge, e provoca all’uscita
I due tesori del ricolmo petto:
Sarei per essi un grassator crudele,
Pronto al ricatto, e a rinunziar per vita
Al vin d’Oliena, all’aranciata, e al miele!
LANUSEI
Non può dirsi villaggio, e non città:
Nè femmina, nè maschio – è messa lì
sotto una prefettizia autorità,
Non so perchè, non come, nè da chi.
D’Ogliastra ha il seggio. Buono il vino dà,
Ottima l’acqua, e l’aria pur così.
Offre castagne, e chiede in quantità
Frutta ad Ilbono e ortaglie a Tortolì.
Maligna usanza in ferragosto v’è
D’esporre i fatti altrui: – vizi e virtù,
Nell’ombra, Donna Morti grida a te!…
D’un vezzo de le donne or parlerò:
Non portan busto – e vedi andar su e giù
Quel che tu pensi… e ch’io non ti dirò.
CASTELSARDO
Su l’erta roccia, che superba sfida
l’ira del mar, mostra il Castel dei Doria
Gli aperti fianchi. Aspro sentir vi guida,
Sacro a le capre ed a l’antica storia.
Or genovese, or d’Aragona, or sardo,
Cangiò di nome col cangiar padrone;
Fama di forle egli ebbe – or l’infingardo
Vantar non può che il cittadin blasone.
Inespugnabil Rocca un dì al nemico,
Sede ai Vescovi, e carcere ai birboni,
Glorie molte contò nel tempo antico:
Ma i Castellani, al verde ormai ridotti,
Vivon di bizze, e non si mostran buoni
Come i lor pesci e come i lor biscotti.
PORTO TORRES
Colonia prediletta dei Romani,
Ebbe templi, acquedotti, e un Campidoglio;
Diè la palma a tre mariti cristiani,
E ai Règoli di Pisa offerse il Soglio.
Maligna febbre e saracena rabbia
Le mosser guerra – e allor cadde sfinita:
Vide gli archi sparir sotto la sabbia,
E morì, dando a Sassari la vita.
E Sassari, ogni maggio, umile ancella,
Si reca a San Gavino per sollazzo,
Ed offre a lei la coscia di vitella.
Grata del dono, la Città-villaggio
La invita di Re Barbaro al palazzo
Per darle un bell’uccello di formaggio.

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