Arte e cultura come supporto per i detenuti: le soluzioni dell’associazione “Il Miglio Verde”.

Le psicologhe che si danno da fare per il supporto psicologico (e non solo) per l'associazione "Il Miglio Verde" (Sinnai, Cagliari), ci raccontano in che modo vengono affrontate le problematiche connesse al mondo carcerario e quali mezzi culturali e artistici vengono utilizzati per dare una mano ai detenuti
Articolo di Matilde Bella
Quale futuro avrebbe riservato il destino per le persone che non hanno avuto la fortuna di poter accedere a determinati “mezzi” (culturali, economici e familiari), se solo avessero potuto usufruirne?
Avrebbero optato per scelte diverse? E se, questi strumenti, fossimo in grado di fornirli adesso, per provare a proporre delle alternative alla vita condotta fino ad oggi e, soprattutto, aiutarli a vivere e accettare meglio la condizione in cui si trovano, alleviando quella sensazione di emarginazione e di disagio?
Il Miglio Verde, associazione senza scopo di lucro situata a Sinnai, si è prefissata proprio questo obiettivo: ponendo il focus sulle problematiche connesse al mondo carcerario, tenta di promuovere il benessere in tutti i suoi aspetti, pedagogici, lavorativi e culturali, donando una nuova dignità, facilitando l’integrazione attraverso percorsi socio – educativi per tutti coloro che rappresentano il “diverso”.
Abbiamo avuto modo di parlare con Valentina Pusceddu, Rosella Floris e Caterina Marini, che si danno da fare in qualità di esperte esterne come psicologhe.
Lo scopo principale della vostra realtà è di supportare le persone in condizione di disagio psicosociale, nel tentativo di ripristinarne la dignità e promuovere l’inclusione attraverso percorsi socio – educativi. Nello specifico, quali sono le vostre aree di interesse primario in cui vi siete resi attivisti in maggior misura?
L’area di interesse principale riguarda tutto ciò che rappresenta il “diverso”, discostandosi da quello che viene reputato “normale o moralmente accettabile”. Ci occupiamo principalmente delle problematiche connesse al mondo carcerario e a tutto ciò che lo riguarda, con particolare attenzione a chi lo vive quotidianamente, persone detenute e polizia penitenziaria. Le nostre iniziative vogliono implementare le offerte già presenti nell’Istituto penitenziario, permettendo a un numero maggiore di detenuti di potervi accedere e utilizzare in maniera costruttiva il tempo.
I “mezzi” per raggiungere i vostri obiettivi sono: attività editoriali, eventi culturali e dibattiti pubblici, con lo scopo di combattere i pregiudizi. Quale è stata la risposta in termini di miglioramento delle persone che tentate di aiutare e, d’altro canto, dell’opinione pubblica che cercate di coinvolgere?
La risposta è stata positiva. Hanno accolto con piacere le nostre iniziative, laboratori e rassegne. Il fatto di avere un impegno settimanale con noi ha permesso loro di organizzare il tempo in maniera differente. Tra un incontro e l’altro studiavano e ripassavano le parti, mostrandosi creativi e propositivi. Sono inoltre migliorate le relazioni interpersonali, così come la capacità di cooperare in vista di un obiettivo comune: la società e il mondo esterno.
Siamo rimasti colpiti da alcuni progetti che avete messo in pratica negli ultimi anni. Come il laboratorio di teatro rivolto ai detenuti della Casa Circondariale “E. Scalas” di Uta. Volete parlarci di questa esperienza?
Abbiamo assistito a un cambiamento di prospettiva rispetto a quelli che erano dei luoghi comuni. Gli eventi come CineDentro, Oltre il Sipario e Ora d’Arte ai quali hanno aderito numerosi artisti, hanno consentito di aprire un confronto tra il dentro e il fuori, abbattendo alcuni stereotipi e pregiudizi. Chi ha partecipato ha riferito di essere uscito arricchito, con l’impressione di aver dato poco ma ricevuto tanto, portando all’esterno una visione differente del contesto carcerario.
Quali sono i prossimi passi che intendete muovere per portare aventi le vostre idee e valori? Come possiamo renderci utili per questi obiettivi?
Portare avanti la nostra mission e quindi i nostri progetti. Attualmente è attivo un progetto di scrittura creativa tenuto da Marco Fuccello, il quale a breve presenterà anche il suo libro. Sono inoltre pronti tre progetti, tra cui “Liberamente Dentro”, che purtroppo per mancanza di fondi al momento non possono iniziare.
Al fine di raggiungere i nostri obiettivi, avremmo bisogno non solo di risorse umane che credano nella nostra mission e ci aiutino a perseguirne i fini, ma anche di donazioni e/o contributi economici che ci permettano di realizzarli.
PS: se volete scoprire nel dettaglio i vari progetti attivi e passati, ecco il link al loro sito:
https://www.ilmiglioverdeodv.com/page-LN6MVINxOioImImxDrpX2

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Quando non c’era il grano, si mangiava Su Pan’Ispeli: conoscete il pane antico della Sardegna?

Citato da Plinio il Vecchio, scrittore dell’antica Roma, nella sua “Naturalis Historia”, viene descritto come “un pane impastato con argilla del quale si nutrono i Sardi”.
In Sardegna, il pane non è mai stato solo cibo. È sempre stato simbolo, rito, ingegno. Tra i tanti pani che affollano la straordinaria tradizione sarda – dal carasau al civraxiu, dal frattau al pistoccu – ce n’è uno che affonda le radici in un tempo così lontano da sembrare mitico: Su Pan’Ispeli, il pane di ghianda. Citato persino da Plinio il Vecchio, scrittore dell’antica Roma, nella sua enciclopedia “Naturalis Historia”, viene descritto come “un pane impastato con argilla del quale si nutrono i Sardi”.
Questo alimento antico risale al Neolitico e nasce in un contesto di fame e sopravvivenza. Quando il grano scarseggiava, le donne sarde guardavano alle querce, generose di ghiande mature. La raccolta era attenta: si sceglievano solo quelle ben sviluppate, simbolo di forza e nutrimento. Ma non bastava raccoglierle: le ghiande andavano sbucciate, lessate e poi depurate con un rituale tanto antico quanto affascinante.
L’acqua della bollitura veniva filtrata attraverso uno strato composto da argilla, erbe aromatiche e cenere. Questo non solo serviva a eliminare le sostanze amare e tossiche, ma aveva anche un significato profondamente spirituale. In epoca primitiva, in Sardegna era fortissimo il culto della Dea Madre, divinità della terra e della vita. L’argilla, considerata il suo sangue, aveva un valore sacro: cibarsi di quel pane significava ricevere protezione ultraterrena e conquistarsi un posto nell’aldilà.
Una volta cotte e purificate, le ghiande venivano ridotte in una sorta di “polenta” densa, modellata in pezzi, poi asciugata lentamente al sole o nel forno. Il risultato era un pane dal colore scuro, quasi nero cenere, con un sapore intenso e inaspettatamente gradevole. Nonostante la sua origine umile, Su Pan’Ispeli era tanto apprezzato che continuò a essere preparato e consumato in Ogliastra fino agli anni ’50 del Novecento.
Oggi, il pane di ghianda è quasi scomparso, ma resta uno dei simboli più potenti dell’ingegno e della spiritualità antica della Sardegna: un cibo che nutriva il corpo e, secondo chi lo preparava, anche l’anima.

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