La Sagra di Sant’Efisio, il Santo che non si dà arie e non illude nessuno
Ricordo il primo maggio dei miei anni giovani, quando andavo a piedi in via Roma ed avevo le maniche corte, come tutti gli altri, qualche rara volta con la tensione per un cielo che minacciava pioggia, ma sapevamo che quello era un miracolo da nulla per Efisio.
La sagra di Sant’Efisio è una di quelle feste di popolo che non somiglia a nessun’altra. Non somiglia neanche a se stessa, perché impercettibilmente ogni anno subisce un ritocco, un cambiamento che può essere avvertito solo dopo il confronto con molti anni passati. E sono cambiato anche io, come è normale che sia, come spettatore. Mi sembra anche che sia cambiato il tempo, quello atmosferico, il contorno, l’aspettativa. E per non trascurare niente anche l’asfalto.
Le tribune sono sempre di tubi innocenti, con tutta la nobiltà cagliaritana. Tutto per vedere dentro un cocchio quel piccolo santo che non si dà arie, che non si fa grande, distante, che non illude nessuno e saluta quei tanti che sono stati chiamati come lui a partecipare.
Ricordo il primo maggio dei miei anni giovani, quando andavo a piedi in via Roma ed avevo le maniche corte, come tutti gli altri, qualche rara volta con la tensione per un cielo che minacciava pioggia, ma sapevamo che quello era un miracolo da nulla per Efisio. Lo faceva e noi ne godevamo senza prenderne nota. Per un giorno sembriamo un popolo molto unito, logudorese e campidanese si mischiano per produrre ricchezza, senza cuntierre, giusto per stabilire se uno è di Mogoro o di Ilbono.
Ho un caro amico che è di razza napoletana, ma è nato a Stampace e ogni anno va alla festa alla partenza e al ritorno del santo, controlla che il rito si svolga secondo tradizione e conosce personalmente molti di quelli che l’organizzano, che molte volte sono i figli dei padri che lui ha conosciuto. Non voglio fare nomi, ma l’origine di molti cognomi segnala una grande integrazione, quella vera, biunivoca, che rende naturale ogni integrazione.
Cambiano i paesi che vi partecipano, giusto per piccole variazioni, ma le sensazioni si ripetono uguali: il lussureggiante costume di Orgosolo, quello austero quasi nobiliare delle donne di Tempio, i pescatori scalzi di Cabras, il costume parlante di Desulo, ogni paese il suo, ogni zona i suoi colori e non c’è omologazione se non sotto un altro livello. Le traccas campidanesi hanno la profusione, il rigoglio del campidano contadino quando l’annata è buona o si fa di tutto per averne i favori, consultando i presagi. Poi arriva il cocchio trainato dai due grossi buoi che sembra trascinino la nostra fatica, incuranti del sacrificio, restii ad abbandonarsi all’applauso del pubblico e io vedo il santo, ma guardo loro e penso a tutti i buoi che hanno collaborato volenti e nolenti alle nostre fatiche di vita, come se fossero iscritte nel destino che gli abbiamo riservato. In quel momento mi commuovo e cerco di non darlo a vedere, per non lasciarmi sopraffare, per non rischiare la blasfemia. E sono dentro un tempo tutto mio, anche in quello che immagino soltanto, con altri vestiti, altro contorno. I miei nonni ne parlavano ma non hanno conosciuto la televisione. Sino al momento in cui si inseriscono le sirene delle navi nel porto, che sembra portino il nostro segnale in posti lontani, ma non ci importa, non mi importa, perché questa è la festa nostra e permettiamo che ce la guardino, ce la fotografino, ma sarebbe lo stesso se la facessimo da soli, per noi, come successe negli anni della guerra. I miliziani, una divisa tutta nostra, una vestimenta che ho desiderato da bambino, con quel fucile lungo e il cappello particolare. Un segno quasi di modernità come quel vecchio di 500 anni che non manca mai alla sagra, che sembra venuto a piedi da chissà dove, con la mastruca e su bacculu, coi segni del comando, quello conferito dal rispetto. I cavalli, spirito dell’isola tutta, ogni paese un campione, ogni continente un nostro campione, in un sentimento vero, non ostentato e infatti non ce ne facciamo vanto, è normale. Diventa eroico anche l’Alter nos, che vanterà per tutta la vita quel titolo distintivo, eroico perché ha dovuto imparare ad andare a cavallo, come i suoi avi ha preso confidenza con l’animale e divide con lui la passerella. In quel momento si sente tramite e rappresentante dell’onore di partecipare alla grande festa dei sardi, senza campanili e contrapposizioni, ognuno col proprio apporto. Quando lo vedo ricordo vividamente un mio vecchio amico, compagno di scuola, che un anno ebbe quell’onore e io seppi interpretare e condividere la sua emozione per la vita, dietro le sue apparenze ciniche e le apprensioni ad ogni scarto del cavallo. Non ho mai sfilato e in questo sta il riconoscimento della mia umiltà. Come disse Groucho Marx in e per un’altra situazione, non potevo partecipare a una sfilata dove permettono la partecipazione di uno come me.
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