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 Sagra lumaca Gesico 19  

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Terzo giorno di festeggiamenti a Gesico, il paese della lumaca e delle sette chiese, per la 25esima edizione della Sagra della lumaca, la più celebre festa della Trexenta che attira ogni anno decine di migliaia di visitatori da tutto il sud Sardegna. Da qualche tempo, la sagra si svolge in concomitanza con quella di Sant’Amatore, il santo vescovo martirizzato a Gesico agli inizi del sesto secolo, una festa che quest’anno è arrivata alla sua 396esima edizione.

Quest’anno la sagra è iniziata il 13 ottobre e terminerà domani, lunedì 16. Tante le iniziative, dalle mostre, la musica e i balli sardi, alle tanto attese degustazioni di lumache. Ma il cuore della festa resta sempre Gesico, dove per quattro giorni si può fare un tuffo nel passato e ritornare proprio al tempo in cui la festa di Sant’Amatore era davvero un’occasione per la popolazione di tutto il circondario (contadini e allevatori, ndr) per acquistare nuovi utensili, abbigliamento e altri oggetti d’uso quotidiano. Ancora oggi, nel cuore del paese lungo la via Sant’Amatore, sono infatti presenti venditori di prodotti alimentari tipici sardi (miele, frutta secca, torrone, olio, ecc.), di utensili vari (cestini, sedie, campanacci, coltelli e altri utensili da cucina) e di abbigliamento tipico sardo.

In Sardegna, il pane non è mai stato solo cibo. È sempre stato simbolo, rito, ingegno. Tra i tanti pani che affollano la straordinaria tradizione sarda – dal carasau al civraxiu, dal frattau al pistoccu – ce n’è uno che affonda le radici in un tempo così lontano da sembrare mitico: Su Pan’Ispeli, il pane di ghianda. Citato persino da Plinio il Vecchio, scrittore dell’antica Roma, nella sua enciclopedia “Naturalis Historia”, viene descritto come “un pane impastato con argilla del quale si nutrono i Sardi”.

Questo alimento antico risale al Neolitico e nasce in un contesto di fame e sopravvivenza. Quando il grano scarseggiava, le donne sarde guardavano alle querce, generose di ghiande mature. La raccolta era attenta: si sceglievano solo quelle ben sviluppate, simbolo di forza e nutrimento. Ma non bastava raccoglierle: le ghiande andavano sbucciate, lessate e poi depurate con un rituale tanto antico quanto affascinante.

L’acqua della bollitura veniva filtrata attraverso uno strato composto da argilla, erbe aromatiche e cenere. Questo non solo serviva a eliminare le sostanze amare e tossiche, ma aveva anche un significato profondamente spirituale. In epoca primitiva, in Sardegna era fortissimo il culto della Dea Madre, divinità della terra e della vita. L’argilla, considerata il suo sangue, aveva un valore sacro: cibarsi di quel pane significava ricevere protezione ultraterrena e conquistarsi un posto nell’aldilà.

Una volta cotte e purificate, le ghiande venivano ridotte in una sorta di “polenta” densa, modellata in pezzi, poi asciugata lentamente al sole o nel forno. Il risultato era un pane dal colore scuro, quasi nero cenere, con un sapore intenso e inaspettatamente gradevole. Nonostante la sua origine umile, Su Pan’Ispeli era tanto apprezzato che continuò a essere preparato e consumato in Ogliastra fino agli anni ’50 del Novecento.

Oggi, il pane di ghianda è quasi scomparso, ma resta uno dei simboli più potenti dell’ingegno e della spiritualità antica della Sardegna: un cibo che nutriva il corpo e, secondo chi lo preparava, anche l’anima.