Gli artisti di Roma. Marco Fioramanti, tra sciamanesimo, performance e pittura ancestrale

Abbiamo incontrato una delle figure più eclettiche del panorama artistico romano e internazionale per inaugurare una rubrica dedicata a personaggi di rilievo dell'arte contemporanea di Roma.
Gli artisti di Roma. Marco Fioramanti, tra sciamanesimo, performance e pittura ancestrale.
Abbiamo incontrato una delle figure più eclettiche del panorama artistico romano e internazionale per inaugurare una rubrica dedicata a personaggi di rilievo dell’arte contemporanea di Roma.
Marco Fioramanti (Roma, 11 febbraio 1954) ha attraversato i decenni del Novecento della cultura con lunghi soggiorni all’estero e ricerche sul campo in Cina, Tibet, Marocco e sullo sciamanesimo in Nepal e Mongolia. La sua ricerca si muove tra diversi linguaggi e forme espressive, riferimenti archetipici e trascendenti, secondo un’idea di arte totale che mira al recupero di segni, gesti e comportamenti ritualistici propri delle culture extra-europee. Esponente del Movimento Trattista, noto anche come Primitivismo astratto (Roma, 1982), accompagna da sempre l’attività pittorica all’azione performativa, allargando il suo campo d’azione anche all’editoria come autore e/o curatore di cataloghi, libri e riviste d’arte. Nell’85 schianta la sua Volkswagen sul Muro di Berlino anticipandone la caduta. Dal 2007 crea e dirige NIGHT ITALIA, libro/rivista periodico, costola indipendente dell’omonima newyorkese NIGHT , fondata nel 1978 da Anton Perich, apice di una lunga serie di avventure editoriali a carattere documentaristico, che a partire dalla scelta dei temi e degli autori, testimonia lo specifico sguardo di Fioramanti sulla realtà e sull’uomo. Dal 2010 installa relitti di grandi dimensioni site specific.
Così lo descrive lo scrittore Francesco Tarquini: “Di lui e della sua vita si potrebbe dire, come di un certo protagonista di Flaubert, Viaggiò. Conobbe la malinconia dei piroscafi, i freddi risvegli sotto una tenda, l’incanto dei paesaggi e delle rovine……Ritornò. Ritornò. O invece ritorna, continua a ritornare, da un viaggio instancabilmente ripetuto? Viaggiò lungo il perimetro di una stanza segreta: in cui si raccolgono senza depositarsi, ma esplodendo al contrario in forme cangianti, metamorfiche, gli oggetti e le tracce di percorsi che stanno nel tempo: dalla vita che e’ stata di Marco venuti a radicarsi in un presente assoluto e vitale. Viaggiatore nei miti e nei riti, nei canti notturni degli sciamani come nel totemismo dei grattacieli, sembra di vederlo di nuovo, all’alba, un punto lontano ma riconoscibile su una spiaggia battuta dalle bianche creste dell’Atlantico, guardare il mare in piedi accanto alle canne da pesca piantate nella sabbia come antenne in attesa di segnali, mentre spia il disegnarsi lontano di una vela o il rotolare sulla riva di una bottiglia contenente un foglio di carta logoro, arrotolato. Se fosse una torre, sarebbe una di quelle torri di vedetta che disseminano i loro resti lungo il litorale del Tirreno. Rifugi di uccelli marini, non più fortezze ma porte spalancate su un mare dal quale si è smesso di temere l’arrivo dei pirati. Non sarebbe un gabbiano, se fosse un uccello. Sarebbe un piccione viaggiatore, che reca lontano messaggi e altri in cambio porta indietro. O forse col becco starebbe aggredendo ripetutamente un albero, con la caparbia tenacia del picchio rosso. Se fosse un ponte su un fiume sarebbe Ponte Sisto, dove ci inviterebbe a calpestare, festosi, cento metri di tela dipinta. Ma se fosse un fiume sarebbe uno di quei selvaggi fiumi d’America, che scorrono lenti e tranquilli lungo alte rive fitte d’alberi, e che d’un tratto accelerano il corso precipitando tra rocce ostili in un rauco ruggito di cascata. Se fosse, semplicemente, un uomo, sarebbe, al pari di chi sta scrivendo queste righe, un essere sdraiato che sogna”.
“Col proprio corpo si lascia una traccia dell’esistenza” Così scrivi in un tuo recente hai-K.O. Parlaci di questo segno nella tua vita.
Il realtà le tracce rilasciate nel tempo sono almeno tre, tre esistenze a tempo pieno: la prima, lo sport agonistico, il canottaggio in particolare; poi gli studi e la laurea in ingegneria e infine la presa di coscienza, determinante, di esprimermi con l’arte (pittura, installazioni o performance). Gli happening storici del gruppo trattista dei primi anni Ottanta (Roma, Monaco, Berlino ovest e Parigi) nei quali si dipingeva su grandi tele a diretto contatto col pubblico creavano una sorta di magia, di interazione “fisica” con gli osservatori e, per quanto mi riguarda, di conseguenza un risultato estetico di grande qualità rispetto al lavoro al chiuso dello studio.
Parlami della tua ricerca sullo sciamanesimo
Sciamani, così come gli artisti o i profeti, non si diventa, si è costretti a esserlo. Finita ogni performance finisce anche la magia e il potere dell’artista. Il rituale rabdomantico potrà riattuarsi quando ci sarà di nuovo la consapevolezza di trasformare l’energia creativa in una forma artistico-ancestrale e ogni volta mi faccio strumento di quel passato lontano. L’artista in azione ricrea ogni volta la realtà secondo un pensiero che è comune a tutti. E per questo diventa sciamanica – e anche terapeutica – in quanto rafforza la psiche collettiva. Redistribuendo quell’energia ci si ritrova alla fine dentro un unico spazio/corpo e in un unico tempo/aión. Per lo stesso motivo non può esistere uno sciamanesimo senza una forma di attività artistica. Gli studi sui testi specifici e le mie ricerche esperienziali sul campo (Nepal, Marocco e Mongolia) hanno contribuito a completare la mia attività artistica di performer.
I viaggi sono stati fondamentali nel tuo percorso.
Sì, per oltre venti anni ho girato in lungo e in largo: gli anni ’80 soprattutto in Europa con lunghi stazionamenti a Berlino Ovest, Barcelona e Parigi. Ovunque ho stretto fantastici sodalizi artistici, in particolare l’incontro a New York con Anton Perich e il suo collegamento con la Factory di Warhol. Negli anni ’90 la pratica del tai chi e la scoperta dell’Oriente: Thailandia, Cina e Tibet, Nepal (al seguito di una missione antropologica della II università di Roma) e più tardi la Mongolia. E tutto il nord Africa, con un amore viscerale per il Marocco. Ultima residenza artistica, biennale, è stata nel nordest del Portogallo..
Come ti definiresti in poche parole?
Un “homo faber”, instancabile nell’interdisciplinarietà delle sue discipline. Un artista che in quaranta anni di attività ha elaborato a diversi livelli il concetto dell’archetipo, cercando di mettere in scena l’essenziale.
In foto
Fioramanti 1: opera di Marco Fioramanti e i Trattisti a Ponte Sisto a Roma
Fioramanti 2: Fioramanti a Berlino
Fioramanti 3: Opera di Fioramanti “CR 42 Falco” per Open Box, svoltasi nei giardini dell’aventino a cura di Francesca Perti

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