Lanusei. Sindaci, consiglieri e avvocati uniti in assemblea. “No al deserto istituzionale”

Nel nord-ovest della Sardegna, si erge un patrimonio architettonico tanto affascinante quanto poco conosciuto: le torricule. Conosciute localmente come “turricula”, queste torri in pietra a secco rappresentano una tipologia edilizia esclusiva della regione del Coros, in particolare dell’agro di Ittiri, ma con presenze significative anche nel Logudoro, nel Mejlogu e più a sud, in Planargia.
A differenza del più noto pinnettu barbaricino, la turricula si distingue per la sua forma a gradoni o tronco-conica e per la costruzione interamente in pietra locale, senza l’uso di leganti. Si tratta di edifici rurali eretti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando contadini e pastori, armati solo di mani e tecnica tramandata, erigevano questi rifugi per affrontare la fatica dei campi e la durezza della transumanza.
Le torricule avevano una funzione ben precisa: protezione. Contadini e braccianti le utilizzavano per ripararsi durante la semina o la raccolta, mentre i pastori vi trovavano sosta e riparo, specialmente nelle notti di luna piena, quando il rischio di furti di bestiame si faceva più concreto. Strutture robuste ma semplici, simbolo di un’architettura povera ma ingegnosa, che ben si adattava alla materia prima del territorio: la pietra calcarea, leggera e facilmente lavorabile.
In uno scatto suggestivo della fotografa Denise Diana, una di queste torri si staglia lungo la SP41bis, nei pressi di Ittiri. A un primo sguardo potrebbe ricordare i trulli pugliesi o i nuraghi dell’età del bronzo, ma la turricula sarda ha un’identità tutta sua. È un segno silenzioso della fatica quotidiana di generazioni e, oggi, un patrimonio che merita di essere riscoperto e valorizzato.