Lo sapevate? In Sardegna esiste il Museo del Carbone: ecco dove
Il progetto per il recupero e la valorizzazione del sito ha reso fruibili gli edifici e le strutture minerarie che oggi costituiscono il Museo: ecco come e quando visitarlo
canale WhatsApp
Il sito minerario di Serbariu, attivo dal 1937 al 1964 nel Sulcis, ha caratterizzato l’economia del Sulcis e rappresentato tra gli anni ’30 e ’50 una delle più importanti risorse energetiche d’Italia. Il complesso è stato recuperato e ristrutturato a fini museali e didattici. Il progetto per il recupero e la valorizzazione del sito ha reso fruibili gli edifici e le strutture minerarie che oggi costituiscono il Museo del Carbone.
La visita include i locali della lampisteria, della galleria sotterranea e della sala argani.

PH Museo del carbone
Nella lampisteria ha sede l’esposizione permanente sulla storia del carbone, della miniera e della città di Carbonia. L’ampio locale accoglie una preziosa collezione di lampade da miniera, attrezzi da lavoro, strumenti, oggetti di uso quotidiano, fotografie, documenti, filmati d’epoca e videointerviste ai minatori.
La galleria sotterranea mostra l’evoluzione delle tecniche di coltivazione del carbone utilizzate a Serbariu dagli anni ’30 fino alla cessazione dell’attività, in ambienti fedelmente riallestiti con attrezzi dell’epoca e grandi macchinari ancora oggi in uso in miniere carbonifere attive.
La sala argani, infine, conserva al suo interno il macchinario con cui si manovrava la discesa e la risalita delle gabbie nei pozzi per il trasporto dei minatori e delle berline vuote o cariche di carbone.
A Ulassai, davanti al morto, le cognate cantavano una canzone particolare: ecco quale

A Ulassai, quando qualcuno moriva, le parole diventavano canto. Un canto che raccontava dolore, amore e famiglia, esaltando i pregi del defunto come solo la memoria può fare…
canale WhatsApp
A Ulassai – così come in tanti altri luoghi della Sardegna – quando moriva qualcuno, tutta la famiglia si riuniva intorno al defunto. Prima di portarlo in chiesa, arrivava il falegname con la bara, che aveva preparato la mattina stessa dopo aver preso le misure. In seguito, però, le bare cominciarono a essere realizzate in serie.
Intorno al defunto si radunavano la moglie, vestita di nero con un fazzoletto sulla testa, le sorelle, le cognate e i fratelli. Tutti cantavano a turno, parlando però della propria famiglia. Come racconta Simonetta Delussu nel libro Stregoneria in Sardegna, a un certo punto la cognata si alzava e cantava:
Deu fetti cittia chi
ci parti non sia
iscura connada mia
de nieddu esti bestia
bestia e da nieddu
pesa e pigasinteddu
esti a sindedu pigai
poitta mariu tenidi e sposai
e deppeusu festai
ae festai deppeusu
e s’arcu riuneusu
a riuneusu s’arcu
tottu eita pensu eu
su chi deppeu pensai
ca meda sunfriu asi
in sa malatia
e pena di tenia
e n di tengiu pena
ca asi sunfriu medache
tui chi podisi prega
la ca de coru ti d’avvertia
po sa familia
po sa tua e po sa mia.
Questo canto era dedicato a un uomo che per molti anni era stato gravemente malato. In questi canti si esaltavano soprattutto i pregi del defunto, spesso esagerandoli. Quando si parlava dei figli, in quasi ogni strofa si diceva “figliu miu”, mentre per il marito si usava “coro meu”.
Chi in casa non aveva nessuno capace di cantare, chiamava delle donne note come attittadoras. Tuttavia, alcuni erano contrari a questa pratica, perché ritenevano che i sentimenti più grandi dovessero esprimersi spontaneamente, dal cuore, come segno dell’affetto reale verso il defunto.
Testo tratto da “Stregoneria in Sardegna. Processione dei morti e riti funebri” di Simonetta Delussu, Parallelo 54 Edizioni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
