Tutte le curiosità sugli abiti tradizionali sardi. La parola all’artista Davide Gratziu
Gli abiti tradizionali sardi, oltre al valore derivante dalla produzione tipica del nostro artigianato, nascondono storie molto particolari. Oggi ne scopriamo qualcuna, attraverso lo sguardo e l'arte di Davide Gratziu, giovane illustratore e grafico cagliaritano.
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Se vi siete imbattuti nelle feste popolari tipiche sarde come quella di Sant’Efisio a Cagliari o la Cavalcata di Sassari, avrete sicuramente notato i classici indumenti, riconoscibili nei tratti caratteristici come i colori, i tessuti e lo stile particolare dei vari “componimenti”. Si possono ammirare anche nei diversi musei etnografici della Sardegna.
Ma, come nasce questa tradizione e quali storie si celano dietro gli abiti?
Scopriamolo insieme!
Il costume sardo, diverso per ogni località, indicava la provenienza di chi lo indossava, esaltando l’estrazione e lo stato sociale. Ogni costume era adatto per particolari occasioni: quelli più originali ed elaborati per le feste, più semplici per tutti i giorni, diversi per i ricchi e per i poveri, per le donne sposate, per le nubili e per le vedove.
Nonostante i costumi sardi siano tutti particolarmente elaborati e variopinti, la differenza tra uomo e donna era notevole anche in questo aspetto: colorati e sgargianti per le donne, più severi quelli degli uomini.

L’attività tessile nella nostra regione risale all’Età del Rame e fortunatamente sono ancora tante le testimonianze arrivate fino ad oggi dall’epoca romana. Tra i materiali utilizzati per la realizzazione degli abiti sardi, il più originale è il broccato: un tessuto pregiato che ha origine nel 300 d.C. in Asia. I diversi colori del broccato, nell’abito sardo, rappresentavano una determinata fase della vita.
Sugli abiti sardi si possono individuare le influenze dei popoli invasori del passato: ogni comunità infatti può contare su un proprio vestito tradizionale diverso da tutti gli altri.
La realizzazione non è semplice e il lavoro degli artigiani veniva tramandato da generazione in generazione.Il vestito tradizionale delle donne può contare sulla cuffia, una camicia sempre di colore bianco e il corsetto che può essere di diversi tagli. Per decorarlo ulteriormente si usava “sa sabeggia” un amuleto donato ai neonati che veniva portato per tutto il corso della vita.
“Su sciallu” (lo scialle) solitamente nero o marrone, veniva arricchito con motivi floreali.
Per quanto riguarda il costume maschile, invece, abbiamo: la camicia, i pantaloni di lino bianco, il gilet, il berretto, la giacca.
Del costume può far parte anche la mastruca, grande cappotto di lana con pelle di pecora. Questo indumento ha una storia particolare: si tratta di una veste di pelle lanosa; Cicerone definiva i sardi come “latruncoli mastrucati” e questo riferimento era collegato alla convinzione che il popolo sardo era riuscito a non farsi mai sottomettere del tutto dai romani.
Altro elemento molto particolare è sicuramente “sa Berritta”: il copricapo di forma cilindrica in panno nero (a volte anche rosso), che aveva all’interno un taschino per il tabacco o il pettine.
Infine, “su saccu nieddu”: la mantella dei pastori, porcari e caprai, era uno scaccia acqua e li proteggeva durante i temporali.
Davide Gratziu, giovane illustratore e grafico di Cagliari, ha dedicato delle sue opere a questo argomento, studiando nei minimi dettagli le caratteristiche di ogni indumento. Ci mostra quindi degli esempi di questi meravigliosi abiti, raccontandoci il suo modo di immaginare le donne e gli uomini di quell’epoca.
“Trittico donna in abito sardo”.
Siamo donne, siamo madri, siamo sorelle e siamo unite.
Siamo la forza che porta avanti la famiglia, la corazza della casa e della società.

“Uomo in abito sardo.”
Ogni mattina mi sveglio alle 4.
Ho la mia routine. Seguo il pascolo, passeggio per le mie terre.
Assaporo il profumo della natura che mi circonda.
Arricchisco la mia anima con l’essenza delle nostre tradizioni.
Sono un uomo.
Sono un pastore.
Sono un amante della natura.
Sono sardo.
“Donna sarda mosaico”.
Una folata di vento mosse il mio velo.
Ero bellissima. Usavo l’abito di mia madre. Sembrava cucito sulla mia pelle. Strati di tessuto raffinato, gioielli che illuminano il mio viso e mi rendevano fiera delle mie tradizioni.
Passeggiavo per il mio paese.
Mi sentivo come in un limbo nel tempo.
Ero avvolta dalla storia dei miei avi e dal futuro dei miei figli.
Sono qui ora, lo sono sempre stata e ci sarò per sempre.
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L’arte come relazione, scambio e crescita: intervista all’artista di Gavoi Rossana Fancello

Nata a Nuoro e cresciuta a Gavoi, intreccia nella sua ricerca il rigore del territorio e la delicatezza del gesto. «L’arte è una guida silenziosa, un porto sicuro», racconta. La sua voce, discreta e lucida, ci accompagna in un dialogo sull’identità, l’insegnamento e la libertà di creare. Leggi l’intervista completa.
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C’è una quiete intensa nei lavori di Rossana Fancello, un respiro che sa di montagna, di silenzio e di tempo. Nata a Nuoro nel 1979 e cresciuta a Gavoi, Fancello è una figura discreta e luminosa dell’arte sarda contemporanea: insegnante, pittrice, sperimentatrice di materiali e forme, esploratrice di una sensibilità che intreccia identità e memoria.
«Non so se definirmi artista», dice, «è una parola che uso con molta cautela». Per lei, la pratica creativa è una compagna di viaggio, “una guida silenziosa, ma anche un rifugio, un porto sicuro”. Il suo linguaggio nasce dal rapporto profondo con la materia e il territorio, da quella Sardegna fatta di contrasti che lei descrive come una terra “in cui la bellezza dei luoghi si intreccia a un senso di sobrietà e rigore”.
Gavoi, in particolare, ha rappresentato il punto di partenza di un percorso che unisce radici e contemporaneità. «Ero bambina quando vidi artisti internazionali animare le strade del paese durante Plexus – Identità e traiettorie», ricorda. «È stata una rivelazione: la scoperta che l’arte può entrare nella vita quotidiana e trasformarla».
Oggi insegna Discipline geometriche e Laboratorio di Architettura al Liceo Artistico di Lanusei, e considera la scuola un’estensione naturale della sua ricerca artistica. «Essere artista richiede una dedizione totale», spiega. «L’ispirazione esiste, ma deve trovarti al lavoro». È la lezione che cerca di trasmettere ai suoi studenti, insieme alla consapevolezza che la creatività nasce dal fare, dal provare e riprovare, dall’errore e dalla sorpresa. Nelle sue classi, la pratica artistica e l’insegnamento si incontrano in un continuo scambio: «L’interazione con studenti e colleghi mantiene viva la mia creatività. Le idee si contaminano, nascono collaborazioni inattese, e ogni esperienza si trasforma in un’occasione di crescita reciproca».
Un esempio recente è il progetto realizzato con il collega Gianleonardo Viglino per le Giornate dell’Arte di Lanusei: grandi gioielli sardi sovradimensionati che adornano le fontane pubbliche del paese, «come un’eredità lasciata dai nostri avi giganti, posata su un altro gioiello prezioso, le fontane stesse». Un gesto poetico per restituire bellezza ai luoghi quotidiani e rinnovare il legame con la memoria collettiva.

Il filo invisibile che attraversa il suo lavoro è il tempo. «La memoria è una materia viva: cambia forma, si riscrive, ci restituisce versioni sempre nuove di noi stessi». Nei lavori di Fancello convivono il vissuto personale e la dimensione collettiva. Nei primi progetti la tradizione sarda emergeva attraverso la lana, le geometrie, i motivi decorativi; oggi, invece, prevale una ricerca più intima, fatta di acquerelli e gesti immediati, dove le emozioni prendono corpo in forme leggere e istintive.
Il legame con la Sardegna si è trasformato nel tempo: «L’allontanamento l’ha reso più intenso, forse anche un po’ idealizzato», ammette. Ma è proprio da questa distanza che nascono le sue opere più legate al territorio: un dialogo tra radici e sguardo contemporaneo, tra memoria e trasformazione.
Per lei, l’arte è anche un gesto di resistenza. «In un tempo dominato dalla velocità e dal consumo visivo, l’arte resta uno dei pochi spazi in cui è ancora possibile fermarsi, osservare, riflettere». Creare, per lei, significa opporsi all’omologazione e coltivare uno sguardo critico, libero dai modelli imposti dai social media. «L’arte diventa così un atto di libertà e consapevolezza: ci insegna a riconoscere la complessità del bello».
Sull’arte contemporanea in Sardegna, Fancello è diretta e realista: «Manca un sistema culturale coeso e accessibile, capace di dare continuità al fermento reale che c’è sull’isola». Tante realtà operano con passione, ma restano frammentate e poco sostenute. «Può permettersi di fare l’artista solo chi ha mezzi propri o appoggi solidi, e questo impoverisce la scena culturale».
L’artista guarda con interesse al modello irlandese del reddito di base per creativi: «Sarebbe un modo per riconoscere il valore sociale dell’arte e permettere a chi crea di vivere del proprio lavoro».
Nel percorso di Rossana ci sono molte figure che l’hanno segnata: le donne della sua famiglia, con la loro forza silenziosa; gli insegnanti dell’Istituto d’Arte di Nuoro e dell’Accademia di Bologna; e una parentela simbolica con Costantino Nivola, “riferimento importante per la capacità di portare la Sardegna nel mondo senza perderne l’essenza”.
«Ognuno di questi incontri», racconta, «mi ha aiutato a capire che l’arte è soprattutto relazione, scambio e crescita».
Oggi, tra un disegno e una lezione, tra una fontana adornata e un nuovo acquerello, Rossana Fancello continua a cercare quel punto d’incontro tra il personale e il collettivo, tra il gesto e la memoria. Con la grazia di chi sa che l’arte, come la Sardegna, è un linguaggio che si parla piano.


Rossana Fancello, artista

Rossana Fancello, artista

Rossana Fancello, artista

Rossana Fancello, artista

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