Tutte le leggende legate al Natale in Sardegna, tra passato e presente: quali conoscevate?

Tra le varie festività, quella attesa con più gioia e trepidazione è sicuramente il Natale. Ieri, quando ancora la modernità e la globalizzazione non avevano influenzato le varie culture, come veniva trascorso e quali erano le tradizioni legate al Natale?
Tra le varie festività, quella attesa con più gioia e trepidazione è sicuramente il Natale. Ieri, quando ancora la modernità e la globalizzazione non avevano influenzato le varie culture, come veniva trascorso e quali erano le tradizioni legate al Natale?
Tutto prendeva vita la sera del 24 dicembre, davanti ad un camino. La famiglia si riuniva attorno al tepore emanato dal fuoco, mentre davanti ai loro occhi bruciava un grosso ceppo. Quest’ultimo, non era un pezzo di legno qualunque: “su troncu de xena” ( “il tronco della vigilia di Natale”) veniva tenuto acceso a partire dalla vigilia – come dice il nome stesso – fino almeno all’Epifania, con lo scopo di scaldare il Bambin Gesù. Secondo la leggenda, la meticolosità della famiglia nella cura del ceppo, avrebbe portato fortuna l’anno successivo.
Allora non venivano addobbati grandi e folti alberi di Natale, ma le pareti della casa erano abbellite con cura da donne e bambini, che vi appendevano rametti di menta, alloro o ancora rami d’ulivo.
Momento di incontro e unione dei giovani e meno giovani del paese, la messa della vigilia, detta anche “sa miss’è pudda”, era l’avvenimento più atteso della giornata. Tutti si ritrovavano in chiesa, e proprio a causa di questa grande folla che si radunava in un unico punto, molto spesso il tutto – messa compresa – degenerava nel caos: chiacchiere, bisbiglii di sottofondo, bucce di mandarini o di frutta secca che venivano lanciate da giovani rubacuori verso le ragazze più carine. Il tutto scandito da frequenti spari, sia all’interno che all’esterno della chiesa, nonostante fosse severamente vietato.
Durante sa miss’è pudda, la leggenda narra che indispensabile fosse la presenza delle donne in gravidanza. Nel caso in cui il bambino, ancora nel grembo materno, avesse presentato eventuali cerebrolesioni o malformazioni, la messa avrebbe curato ogni problema. Questa notte di preghiera aveva infatti anche un forte potere esorcizzante, come si può intuire dal detto che, in merito alla “cura del feto malato”, dice che durante la messa “sa bestia si furrìada in cristianu”. Secondo la leggenda inoltre, le donne in stato di gravidanza che avessero scelto di non partecipare alla funzione religiosa, rischiavano seriamente di dare alla luce una creatura mostruosa: numerosi racconti in merito narrano di bambini nati con strane forme animalesche, che spesso assumevano i tratti di grandi uccelli neri.
Le future mamme che invece avessero rispettato, secondo la tradizione, i doveri di una buona religiosa, nel caso in cui avessero dato alla luce il bambino durante la notte di Natale, avrebbero avuto allora la fortuna di generare un bimbo “speciale”: si era infatti convinti che il neonato avrebbe protetto dalle disgrazie almeno sette case del vicinato, e che, lungo l’intero corso della sua esistenza, non avrebbe perso né denti né capelli. Inoltre, il bambino in questione, avrebbe mantenuto intatto il proprio corpo anche dopo il decesso, come recita il detto “chini nascidi sa nott’è xena non purdiada asut’e terra” (ovvero, chi nasce la notte della vigilia di natale non può marcire sotto terra).
La figura della donna, popola quindi le antiche leggende sarde riguardanti il Natale.
Tra le creature fantastiche più conosciute legate alla tradizione natalizia vi è Maria Puntaborru. Secondo antichi racconti, dopo la cena della vigilia di Natale, neanche una briciola di pane sarebbe dovuta rimanere sulla tavola a fine pasto, o sarebbe presto arrivata Maria.
In particolare nella zona del Campidano, questa figura era molto diffusa e faceva tremare di paura i bambini del tempo. La leggenda narra infatti che, nel caso in cui qualche alimento fosse stato lasciato sulla tavola, Maria, che la notte si aggirava sempre nelle case dei vivi, avrebbe punito i commensali infilzandogli lo stomaco con uno spiedo.
Infine, sempre la figura della donna vista come strega, capace di diabolici malefici ai danni degli altri, è la protagonista di una seconda, affascinante, credenza popolare. Precisamente nel periodo inquadrato fra il Natale e l’Epifania, a tutte quelle donne che recitavano i brebus e conoscevano l’arte della predizione, della cura, e della medicina contro il malocchio, spettava un importante compito: dovevano trasmettere in questo momento i propri segreti alle future praticanti.
Ma questa è tutta un’altra storia. Bona Paschixedda a tottus.

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Elio Vittorini in Sardegna: un viaggio nell’Isola in cui “si torna bambini, come si era nel principio del mondo”

Nel settembre del 1932, Elio Vittorini approda in Sardegna per un viaggio organizzato dalla rivista L’Italia Letteraria, che bandisce un concorso per il miglior resoconto dell’esperienza. Vittorini, allora giovane scrittore, si aggiudica il primo premio.
Nel settembre del 1932, Elio Vittorini approda in Sardegna per un viaggio organizzato dalla rivista L’Italia Letteraria, che bandisce un concorso per il miglior resoconto dell’esperienza. Vittorini, allora giovane scrittore, si aggiudica il primo premio ex aequo con Virgilio Lilli. Ma per lui quel viaggio non è solo un’opportunità giornalistica: diventa un momento di rivelazione, una tappa formativa che si cristallizzerà nel breve ma potentissimo testo “Sardegna come un’infanzia”.

Foto Antonio Ballero
Lontano dai toni cronachistici del reportage, Vittorini costruisce una narrazione visionaria, poetica, rarefatta. La Sardegna che descrive è una terra remota, sospesa nel tempo, essenziale e primitiva come l’infanzia dell’umanità. “In Sardegna si torna bambini. Ma non quei bambini d’oggi, no, bambini come si era nel principio del mondo”, scrive in una delle frasi più emblematiche dell’opera.
Per Vittorini, l’isola non è un luogo da visitare, ma una soglia da attraversare. Le pietre, i silenzi, i volti scolpiti della gente sarda evocano una dimensione premoderna e profonda, fatta di durezza ma anche di autenticità. È una Sardegna che parla con la voce del mito, dove ogni gesto quotidiano appare simbolico, ogni paesaggio diventa archetipo.

Foto condivisa da Domenico Melia
Lo stile, frammentario e lirico, è attraversato da immagini forti, allucinate, che più che descrivere, evocano. Vittorini non cerca l’esotismo né il folclore, ma l’umanità essenziale, quella che vive ancora in simbiosi con la terra, il silenzio, la fatica.
Uno dei passaggi più intensi del libro è dedicato a Nuoro, che Vittorini definisce “la capitale del popolo”, una città che le genti delle Barbagie, dell’Ogliastra e del Marghine riconoscono come centro del proprio mondo. Il mercato brulicante è descritto con la precisione del pittore e la sensibilità del poeta: “Uomini e donne, gli uomini in bianco e nero, alcuni in mastruca, con questo caldo! Le donne in rosso e nero, gremiscono le strade spingendo asinelli carichi di mercanzia… Le donne strepitano con uno strepito da bambine, senza risa, accanitamente loquaci. Hanno voci cantanti. Da fanciulle di sedici anni; le vecchie pure.”
Un’umanità antica si muove tra i vicoli assolati, tra casupole che vendono pomodori poggiati su una sedia o mezzi montoni sorvegliati da cani. Tutto è essenziale, polveroso, vero. Anche il paesaggio partecipa di questa visione: i fichi d’India, le cornacchie, le montagne nere e, in lontananza, la gigantesca statua del Redentore sulla schiena del monte Ortobene, evocano un mondo simbolico, quasi sacro.
Sardegna come un’infanzia è un’opera che, pur nella sua brevità, offre uno dei ritratti più intensi e personali dell’isola. È il racconto di un incontro non turistico, ma esistenziale. Vittorini, più che raccontare la Sardegna, la ascolta, la sogna, la attraversa con occhi nuovi, come se davvero fosse tornato bambino. In un’epoca in cui il viaggio è spesso consumo veloce, l’esperienza di Vittorini ci ricorda che ci sono luoghi che si attraversano solo con lentezza, ascoltando. La Sardegna, per lui, non è una destinazione: è un’origine. Si ringrazia il professor Domenico Melia per aver condiviso gli scatti e l’analisi sul testo di Vittorini.

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