Nei primi anni del Novecento, tra le montagne dell’Ogliastra, un giovane urzuleino si imbatté in una scoperta destinata a lasciare il segno nella storia dell’archeologia sarda. Mentre cercava radica di erica per le fabbriche di pipe in Germania, trovò nella grotta “Sa Domu ‘e s’Orcu” una piccola ma potentissima statuetta in bronzo: una madre che stringe tra le braccia il corpo esanime, o morente, del figlio.
Il ritrovamento, tanto casuale quanto straordinario, svelò al mondo uno dei più intensi esempi dell’arte figurativa nuragica. L’opera, che gli studiosi datano a circa 3.500 anni fa, colpisce per la forza emotiva racchiusa in pochi centimetri di metallo. L’espressione del dolore, la postura raccolta della madre, l’abbandono del corpo del bambino: tutto parla una lingua universale fatta di lutto, speranza e supplica.
Non a caso, la statuetta è stata ribattezzata “La Pietà Sarda”, per l’evidente richiamo alla celebre Pietà di Michelangelo. Ma è il grande archeologo Giovanni Lilliu a conferirle il nome più evocativo: “La Madre dell’Ucciso”. Un titolo che trasforma il bronzetto da semplice reperto a simbolo tragico e sacro, capace di parlare dell’eterno legame tra madre e figlio, della violenza e del dolore nella società nuragica, e forse anche di riti religiosi oggi perduti.
Eppure, nonostante l’intensità della scena, resta il mistero. Il significato esatto del bronzetto è ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi. È una scena di lutto? Una supplica agli dèi? Un gesto votivo? Forse non lo sapremo mai con certezza, ma il potere evocativo dell’opera continua a parlare al cuore dell’osservatore.
Oggi, La Madre dell’Ucciso è custodita nel Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, dove rappresenta una delle testimonianze più toccanti della civiltà nuragica. Un frammento di Sardegna antica che, attraverso il linguaggio del dolore e della speranza, continua a raccontare la storia universale dell’umanità.
© RIPRODUZIONE RISERVATA