I mulini rupestri del Cilento interno, il battito antico della pietra

Tra gole segrete, ruscelli limpidi e selve silenziose, nel cuore più selvaggio del Cilento si nasconde un sistema di mulini scavati nella roccia: capolavori d’ingegno rurale che raccontano di un tempo in cui la pietra viveva e l’acqua parlava
C’è un cuore segreto che pulsa tra le montagne del Cilento interno. È fatto di tufo, roccia calcarea, acqua e memoria. Un cuore scolpito nella roccia viva dai contadini di secoli fa: i mulini rupestri, piccoli santuari dell’ingegno umano, nati per macinare il grano ma anche per custodire il legame più intimo tra l’uomo e la natura.
Incastonati tra i boschi di Laurino, Valle dell’Angelo, Piaggine, Felitto e Sacco, questi antichi edifici scavati nella pietra sembrano usciti da un racconto di magia contadina. Eppure, non sono fiaba, ma realtà tangibile – seppure ormai dimenticata – di un ecosistema rurale sofisticato e armonioso, capace di sfruttare la forza dell’acqua senza violare la natura.
Il loro funzionamento era semplice e geniale: il torrente veniva incanalato tramite canalette di pietra o legno verso una piccola apertura nel ventre della roccia, dove l’acqua, cadendo con forza, metteva in moto una ruota verticale che azionava la macina. Tutto avveniva nel silenzio, rotto solo dal canto del ruscello e dal rombo sordo della macina. In questi anfratti semi-oscuri si celebrava ogni giorno un piccolo rito della civiltà contadina.
I mulini rupestri non erano solo luoghi di lavoro: erano spazi di incontro e di scambio, vere e proprie piazze naturali. Lì, le famiglie si ritrovavano, i bambini giocavano tra i muschi, le donne raccontavano storie mentre attendevano il proprio turno per la farina. Il mugnaio, spesso figura centrale nella comunità, era considerato quasi un alchimista, capace di trasformare la materia prima in cibo.
Le origini di queste strutture si perdono nel tempo: alcune sono documentate già in epoca medievale, ma è probabile che alcune cavità siano state riadattate da grotte naturali usate già in epoca longobarda o addirittura romana. Nel XVIII e XIX secolo, quasi ogni piccolo borgo del Cilento montano possedeva almeno un mulino, spesso alimentato dallo stesso torrente che irrigava gli orti a valle.
Oggi, molti di questi mulini giacciono abbandonati, inghiottiti dal verde, coperti da edera e silenzio. Ma chi si avventura tra i sentieri poco battuti che costeggiano i fiumi Calore, Sammaro o Fiumicello, può ancora scorgere l’ingresso nascosto di questi scrigni di pietra, avvolti da un’atmosfera quasi sacra.
Recuperare e raccontare i mulini rupestri del Cilento non è solo un atto di tutela architettonica. È un modo per riscoprire una visione del mondo fondata sull’equilibrio, sulla pazienza e sulla capacità di leggere il territorio come un alleato. È un invito a camminare piano, ad ascoltare l’acqua che parla ancora, a immaginare una vita in cui l’ingegno umano non ha bisogno di sopraffare, ma solo di armonizzarsi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA