Le “campane del mare”, la storia degli antichi richiami dei pescatori della Campania

Dai porti del Cilento alle calette invisibili alle mappe, un’antica arte sonora rischia di svanire per sempre: quella dei richiami acustici dei pescatori, tra campane, voci e suoni rituali che un tempo risuonavano tra le onde come un linguaggio segreto del mare.
Nel cuore più profondo del Cilento, tra le onde limpide di Marina di Pisciotta, Acciaroli, Palinuro e Camerota, un’antica voce si sta spegnendo. È quella delle “campane di mare”, strumenti sonori e simbolici che un tempo facevano da ponte invisibile tra l’uomo e il mare. Non solo campane vere e proprie — spesso costruite in metallo o in legno e fissate su boe o pali — ma anche fischi rituali, urla codificate, battiti ritmici sui bordi delle barche: un linguaggio acustico che raccontava più di quanto si potesse dire con le parole.
Le fonti storiche sono scarne, ma alcuni studi etnografici e testimonianze orali raccolte tra gli anni ’70 e ’90 documentano come questa pratica fosse ancora viva fino a qualche decennio fa, specialmente nella pesca al cianciolo e con la lampara. Si trattava di suoni codificati per coordinare i movimenti delle barche nella notte, segnalare la presenza dei banchi di pesce, o – secondo una tradizione quasi sciamanica – per “attirare” le alici, i cefali, le sardine verso la rete.
Un pescatore di Marina di Camerota, Ciccio detto ‘U piccinu – “il bassino” – oggi ottantaseienne, racconta che “ogni barca aveva il suo suono” e che, all’ascolto, i marinai sapevano riconoscere il compagno, il posto della pesca, persino lo stato del mare. Le campane di mare erano un’estensione dell’anima del pescatore: un modo per lasciarsi sentire anche nel buio, tra la risacca e la solitudine della notte.
Ma questo linguaggio sonoro era anche un rito propiziatorio. Si credeva che alcune frequenze potessero attirare i pesci o ingraziarsi le forze del mare, che venivano ancora vissute come spiriti antichi, da rispettare e temere. In certi casi, prima di salpare, si intonava un richiamo antico – a volte un lamento, a volte un canto – dedicato alla Madonna del Mare o a San Vito, protettore dei naviganti.
Con l’avvento delle tecnologie moderne — GPS, sonar, radio — tutto questo è stato progressivamente abbandonato. Le nuove generazioni, pur competenti e preparate, difficilmente hanno memoria di queste usanze. Eppure, nei racconti degli ultimi anziani, c’è ancora l’eco di quei suoni, che sembrano fatti di vento, di salsedine e di silenzi pieni di significato.
Oggi, il recupero di questa memoria non è solo un’operazione nostalgica. È un’occasione per riscoprire una relazione più poetica e rispettosa con il mare, dove il lavoro era anche ascolto, attesa e comprensione dei ritmi naturali. Alcune iniziative locali, tra musei etnografici e festival della tradizione marinara, stanno timidamente cercando di riportare alla luce questi frammenti sonori del passato.

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