Valogno: il paese del casertano che ha colorato il silenzio

Il piccolo borgo che ha rifiutato la fine e ha scelto di rinascere tra le pennellate dell’arte
Nel cuore dell’alto casertano, incastonato tra i pendii del Parco Regionale di Roccamonfina–Foce Garigliano, c’è un piccolo borgo che ha deciso di non morire. Si chiama Valogno, una frazione del comune di Sessa Aurunca, e conta oggi appena una trentina di abitanti. Eppure, ogni anno, migliaia di visitatori salgono fin qui per ammirare qualcosa di unico: un paese interamente trasformato in un museo a cielo aperto. Murales ovunque. Colori, volti, storie. E dietro ogni pennellata, una storia di resistenza culturale, sociale e umana.
Valogno non è un luogo come gli altri. È il risultato di una visione, di un gesto collettivo che ha ridato vita a muri destinati al silenzio. È la prova che l’arte, quando è partecipata e condivisa, può salvare non solo la bellezza, ma anche la memoria e l’identità di un luogo.
Negli anni Sessanta, Valogno era un paese vivo. Contava circa 350 anime. Le famiglie lavoravano nei campi, i bambini giocavano in strada, la piazza era centro di aggregazione. Poi venne il grande esodo. I giovani cercarono lavoro altrove, le case si svuotarono, le scuole chiusero. L’abbandono fu lento ma costante. Alla fine degli anni ’90, Valogno era diventato uno dei tanti paesi “fantasma” dell’entroterra campano, destinato a scomparire nell’indifferenza generale.
A cambiare il destino del borgo sono stati due abitanti rientrati da Roma: Giovanna D’Antonio e Bernardino Casale, marito e moglie, ex commercianti, con un sogno semplice e radicale: riportare la vita dove c’era la rassegnazione.
“Non potevamo accettare che un posto così pieno di storia e bellezza finisse nel nulla,” racconta Giovanna. “Così abbiamo deciso di restare. E di inventarci qualcosa.”
Quel “qualcosa” si è chiamato “I Murales di Valogno”.
Nel 2012, con l’aiuto di alcuni amici artisti e di volontari, i due coniugi hanno promosso il primo ciclo di murales. Nessun finanziamento pubblico. Solo donazioni, passaparola, entusiasmo. Gli artisti arrivavano, dormivano a casa loro, mangiavano tutti insieme. E poi dipingevano. Le pareti grigie del paese si sono trasformate in tele. Ogni murales ha una storia: racconta leggende locali, richiami all’infanzia, figure archetipiche, simboli di rinascita.
In pochi anni, più di 60 murales hanno cambiato il volto del borgo. Alcuni di questi sono veri e propri capolavori di street art, altri conservano un tono più naif, ma tutti hanno un comune denominatore: sono nati per comunicare. Per dire che Valogno è vivo, che c’è ancora qualcosa da raccontare.
Il paese ha anche cambiato nome, simbolicamente: oggi molti lo chiamano “il paese dei murales”.
I murales non sono solo decorazioni: sono strumenti di memoria collettiva. Uno dei più celebri raffigura una vecchina che sbuca da una finestra, con uno sguardo profondo e dolce. È la rappresentazione della “zia Concetta”, ultima depositaria delle storie popolari del borgo. Un altro murale mostra bambini che si rincorrono tra le stelle: è un omaggio all’infanzia rubata dalle partenze, dal lavoro precoce, dall’emigrazione.
C’è anche un’opera intitolata “Il peso dell’abbandono”, che mostra una figura inginocchiata sotto un carico di pietre: rappresenta i muri delle case vuote, che pesano sulle spalle di chi è rimasto.
Ogni opera è accompagnata da una targa, da una narrazione, da un incontro. Le visite guidate sono esperienze immersive: i turisti non sono semplici spettatori, ma partecipano a un racconto collettivo. E così il paese diventa teatro, memoria, performance.
Ma i murales sono solo il punto di partenza. A Valogno si è sviluppata una vera e propria filosofia dell’accoglienza, dove l’arte è solo una delle forme possibili. Ogni anno si tengono eventi culturali, laboratori per bambini, reading di poesia, performance teatrali. Giovanna e Bernardino hanno creato l’associazione “Ci devi venire per forza” – il nome è un invito che mescola ironia e sfida – per organizzare tutte le attività e promuovere il borgo.
C’è un orto sociale, un laboratorio di riciclo creativo, una piccola biblioteca comunitaria. E poi ci sono le residenze d’artista: ogni estate, artisti italiani e stranieri vengono ospitati nel borgo per creare nuove opere, condividere competenze, intrecciare linguaggi.
Uno dei progetti più apprezzati è “Valogno dei bambini”: ogni estate, il paese si riempie di giochi, favole animate, laboratori manuali. I bambini dipingono, raccontano storie, si sentono protagonisti. È un modo per seminare futuro dove un tempo c’era solo nostalgia.
Valogno è diventato un modello per altri piccoli centri del Sud Italia che affrontano lo spopolamento. Il suo successo non è nei numeri – non si tratta di cifre impressionanti – ma nella qualità della rigenerazione. Non c’è stato un grande investimento economico, né interventi strutturali imponenti. Tutto è nato dal basso, con una visione chiara: trasformare l’abbandono in occasione di rinascita, puntando sull’arte come collante sociale e motore simbolico.
Naturalmente, le difficoltà non mancano. I servizi sono pochi, la rete di trasporti è fragile, il sostegno istituzionale è spesso discontinuo. Ma proprio per questo, ogni murales è una forma di resistenza, un gesto poetico e politico insieme.
Il turismo culturale che Valogno ha saputo attrarre è un turismo rispettoso, lento, consapevole. Chi arriva fin qui lo fa con l’intenzione di ascoltare, di capire, di partecipare. E questo ha cambiato anche il modo in cui gli abitanti vedono sé stessi.
A differenza di molte iniziative che “folklorizzano” i borghi abbandonati, Valogno ha scelto un’altra strada. Qui non si ricostruisce il passato per farne una cartolina, ma si rilegge criticamente la memoria, si valorizzano le storie marginali, si mettono in discussione i miti dello sviluppo.
“Valogno non è il paese dei balocchi,” dice Bernardino. “Qui si lavora, si sperimenta, si soffre anche. Ma si va avanti insieme, senza maschere.”
Molti artisti che sono passati di qui parlano di una vera e propria trasformazione interiore. Il contatto con il luogo, con i ritmi lenti, con le storie degli anziani, lascia un segno profondo. Alcuni hanno anche deciso di restare, comprando case, avviando piccole attività. È il caso di una giovane illustratrice siciliana che oggi gestisce un piccolo studio d’arte in una casa recuperata nel borgo.
Oggi Valogno è un laboratorio permanente. Non ha raggiunto la stabilità, ma ha acceso una scintilla. I visitatori continuano ad arrivare, la rete di sostegno cresce, nuovi murales si aggiungono ogni anno. Ma resta una domanda aperta: quanto può durare una rivoluzione così fragile?
La risposta, forse, sta proprio nel suo essere fragile. Valogno non ha preteso di diventare “grande”: ha scelto di restare fedele a sé stesso, puntando sull’empatia, sulla lentezza, sulla relazione. È un messaggio che vale molto in un’epoca di iperconnessione e consumo compulsivo: che si può costruire un futuro diverso a partire da ciò che già esiste, se lo si guarda con occhi nuovi.
Valogno si raggiunge da Napoli in circa un’ora e mezza d’auto. L’uscita più vicina è quella di Caianello, sull’A1. Da lì, si segue per Sessa Aurunca e poi si sale verso il borgo. Il periodo migliore per visitarlo è la primavera o l’inizio dell’autunno, quando il clima è mite e il verde del Parco di Roccamonfina esplode intorno.
Le visite guidate possono essere prenotate tramite la pagina Facebook dell’associazione “Ci devi venire per forza”. I murales si possono visitare anche in autonomia, ma è consigliabile affidarsi alle guide del posto per coglierne il senso profondo.
Valogno non è solo un borgo dipinto. È un’idea: che la bellezza può salvarci, se la mettiamo al centro della vita quotidiana. È una speranza: che anche i luoghi marginali possono inventarsi un futuro, se ascoltano le loro radici. Ed è una lezione: che l’arte, quando è condivisa, può fare molto più che decorare. Può trasformare.

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