Napoli, “Tu si ‘na cosa grande”: un’opera “brutta” ma indispensabile per la città?

Arte? Operazione di marketing? Provocazione? Una riflessione sulla scultura più controversa mai apparsa a Napoli. Voi che ne pensate?
L’adagio che recita “parlatene bene, parlatene male, purché se ne parli” sembra adattarsi a pennello all’opera di Gaetano Pesce “Tu si ‘na cosa grande”, installata a Napoli, e alla discussione pubblica che la sua comparsa ha generato.
I dati parlano di un incremento record di visitatori in città negli ultimi weekend grazie proprio all’opera dalla forma che molti hanno definito eufemisticamente ambigua.
In realtà di ambiguo c’è poco, tutt’altro. Il Pulcinella stilizzato, con la coppia di cuori trafitti annessa, è un riferimento esplicito alla storia dei simboli fallici che abbondano a Napoli – e non solo – dalla notte dei tempi.

scultura gaetano pesce napoli PH Michele Ferigo (2)
Al netto della discussione pubblica sul valore artistico e sul costo dell’opera (circa 200 mila euro tra allestimento e disallestimento, alimentazione elettrica, cerimonia di inaugurazione e spese di guardianìa), aspetti nei quali non ci addentriamo, l’altro dato certo è la riuscita della trovata fortemente voluta dal Comune. Sul web, sui giornali, in TV e nelle conversazioni quotidiane l’opera è diventata virale fin dalla pubblicazione delle prime immagini, cioè prima ancora che l’installazione fosse completata. Caso più unico che raro.
Quando lo strano monolite di 12 metri è apparso nella piazza davanti al Comune di una delle città più famose del mondo, lo confessiamo, ci sono cadute le braccia. Dalla nostra prospettiva di persone a cui l’arte contemporanea raramente ha scaldato il cuore, abbiamo cercato di capire se un’operazione di marketing piuttosto dozzinale travestita da opera d’arte, potesse essere tanto demenziale quanto efficace.
Ma nel profondo abbiamo sentito chiaramente una frase echeggiare nella nostra mente: che colossale cazzata!, in tutti i sensi.
Poi, però, è successo qualcosa.

scultura gaetano pesce napoli PH Michele Ferigo (2)
L’altra sera ci è capitato di sostare davanti alla tv in una delle rare occasioni in cui vale la pena farlo, e cioè durante l’ultima puntata di PresaDiretta, su Raitre, intitolata L’era della solitudine.
Abbiamo assistito così ad un viaggio nel mondo d’oggi tra i fenomeni di massa più crudi, silenziosi e inquietanti, nonché meno raccontati, della nostra epoca.
Attraverso i preziosi reportage dei collaboratori di Riccardo Iacona abbiamo appreso che in Giappone esiste la professione degli “amici a pagamento” per far fronte alla dilagante solitudine degli individui. Abbiamo appreso che nelle carceri nipponiche, negli ultimi anni, si registrava un aumento di arresti di persone anziane, a cui sono seguite ricerche e studi scientifici che hanno rivelato che queste persone commettevano lievi reati allo scopo di finire in detenzione perché ciò gli avrebbe consentito di sentirsi meno soli. Abbiamo conosciuto la storia di giovani imprenditori che si sono tolti la vita dopo anni di lavoro ininterrotto raggiungendo traguardi professionali ed economici importanti ma privandosi di ogni relazione sociale e fonte di calore umano a causa dei ritmi e delle dinamiche di vita tipici della nazione.
A Presadiretta abbiamo poi visto le tabelle che mostravano che la solitudine non è un fenomeno in crescita solo lontano da noi, ma a livello globale, soprattutto nei paesi più avanzati. Milano è la città in cui il 55% degli abitanti vivono da soli, una media che supera quella del Giappone, che raggiunge il 44%.
E poi ci siamo ricordati di recenti articoli in cui si rileva che sui social stanno crescendo, come una specie di tendenza, i canali di utenti che raccontano quotidianamente la propria vita senza amici né rapporti sociali appaganti in ogni parte del mondo. E si tratta nella maggior parte dei casi di giovani tra i 20 e i 35 anni.
All’improvviso ci si è aperta nella mente una visione d’insieme della nostra era che sembra avere come comune denominatore la distanza fisica ed emotiva tra le persone, e ci ha pervaso un senso di indicibile angoscia. Nemmeno le grandi crisi umanitarie in atto di cui abbiamo testimonianza visiva ogni minuto su cellulari, TV e giornali riescono ad avvicinarci in un impeto di passione civile.
A questo punto dell’articolo, il lettore si starà chiedendo in che modo tutto questo sconsolante quadro si colleghi con il pulcinella fallico di Gaetano Pesce e con Napoli.
Napoli non può prescindere da tutto ciò che è interazione umana, non può fare a meno del contatto fisico, di un certo livello di promiscuità in senso lato. Anche durante una fugace conversazione occasionale alla fermata del bus con uno sconosciuto, l’interlocutore noterà che le parti del dialogo più accese saranno sottolineate dal dare di gomito o da contatti fisici confidenziali e discreti che cercano di stabilire l’intesa, magari un minuto prima che i due conversatori casuali prendano ciascuno la propria direzione per non incontrarsi mai più. E’ il luogo del mondo in cui la gestualità e la prossimità fisica sono elementi imprescindibili per la comunicazione, è il luogo in cui i baci e gli abbracci scattano anche solo per aver individuato in una persona appena conosciuta una passione in comune, che sia il calcio o un pensiero qualunque sui massimi sistemi, approssimativamente analizzati al tavolo di un bar. E’ la città con il centro storico più esteso d’Europa e tra quelli più densamente popolati e dunque affollati, dove non puoi, nemmeno volendolo, fare una passeggiata evitando che un venditore ambulante, un ristoratore, un parcheggiatore abusivo o uno dei tanti “pazzarielli” che vagano per le strade ti rivolga la parola e ti faccia una battuta estemporanea per testare il tuo grado di felicità come reazione alla spietatezza dell’esistenza.
“Chist’è ‘o paese addò tutt’e pparole, so’ doce e so’ amare, so’ semp’ parole d’ammore”, questo è il paese il cui tutte le parole, dolci o amare che siano, sono sempre parole d’amore. Questo recita la canzone classica interpretata, tra i tanti grandissimi artisti, anche da Pavarotti. Ed è proprio così. Può sembrare oleografia, luogo comune, celebrazione senza ritegno di una filosofia idealizzata e anacronistica, ma chiunque abbia davvero vissuto la città con una disponibilità d’animo tale da farne penetrare gli umori e i contrasti sotto l’epidermide lo può testimoniare con più o meno entusiasmo, a seconda del proprio carattere.
Alla luce di questo accostamento libero di pensieri, l’erezione di Piazza Municipio, che di per sé richiama un simbolo di vitalità e di sangue in tumultuoso movimento, appare ora un evento quasi doveroso, ribelle, carnale e concettuale allo stesso tempo.
E allora, ci chiediamo senza poterci dare una risposta definitiva, vuoi vedere che Napoli è davvero uno dei pochi, se non l’ultimo baluardo dell’umanità che vuol guardarsi ancora negli occhi senza pudici veli di distanziamento precauzionale, l’ultima oasi di caos e passioni scomposte e a volte moleste ma autentiche, in controtendenza con l’alienazione universale che avanza?
Se così fosse, e vi è una grande probabilità che questa ipotesi sia più che una suggestione disperata, allora dobbiamo concludere che l’obelisco di Pesce di fronte al quale il sindaco gongola sornione e i passanti gareggiano per la battuta più maliziosa e il selfie più originale, è un’opera ridicola, oscenamente banale, brutta, oltraggiosa per l’intelletto più che per il senso del pudore, demenziale dalla sua concezione alla sua messa in scena. Ma è ferocemente, incommensurabilmente viva in un mondo di non morti.

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