Personaggi di Sardegna. Melchiorre Murenu, “l’Omero sardo dei poveri”

La Sardegna aveva il suo "Omero dei Poveri". Era Melchiorre Murenu, poeta cieco e analfabeta che interpretava i disagi e la crisi di contadini e pastori dopo l'Editto delle Chiudende di Carlo Felice.
Nel 1820 il sovrano sabaudo Carlo Felice, succeduto al fratello Vittorio Emanuele, avvia la formazione della proprietà privata della terra sarda, contro il regime di proprietà comune precedentemente prevalente. Si tratta del noto “Editto delle chiudende”, ufficialmente finalizzato alla promozione della crescita dell’agricoltura e della borghesia agraria moderna.
Di fatto, però, la nascita delle cosiddette “tancas”, campi chiusi da siepi o muretti a secco, portò numerosi conflitti fra contadini e pastori, oltre che favorire numerosi abusi e una proprietà assenteista.
Per molti, dunque, fu profonda crisi nel mondo delle campagne. Come riportato da Giovanni Pirodda in “Sardegna – Letteratura delle regioni, storia e testi”, interprete di questi disagi della realtà isolana è stato Melchiorre Murenu, autore rappresentativo dell’uso vivo del sardo nella produzione letteraria orale.
In particolare, la sua vita è simile a quella del più noto Omero, celeberrimo autore dell’Iliade e dell’Odissea, – se tralasciamo la cosiddetta “questione omerica” circa la sua avvenuta esistenza – in quanto errante poeta nelle sagre paesane. Murenu assimilava diversi elementi della tradizione locale e della cultura alta, attraverso l’oralità.
Murenu interpretava con vena moralistica ironica e grottesca gli umori e i disagi dei ceti più umili che subivano gli effetti dell’Editto delle chiudende, tanto da essere noto come “L’Omero dei poveri”. Sempre secondo il Pirodda, il quale riporta una voce corrente, il poeta morì ucciso dai bosani, i quali lo gettarono da una rupe, forse “punti” da qualcuno dei suoi versi.

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La Giraffa, aprire una libreria come atto politico: la storia di resistenza di Michela Calledda

A Siliqua c'è uno spazio di cultura, condivisione e confronto che attrae persone da tutta la Sardegna. Chi l'ha detto che nei piccoli comuni non si vendono libri?
“L’idea della Giraffa è nata molti anni fa, ma ha preso una forma concreta solo nel 2020, in quei mesi di lockdown che hanno portato una piccola rivoluzione nel mio modo di intendere alcune cose. Ho cominciato a pensare allora, che fosse utile trovare un posto di confronto per piccoli e tra piccoli. Direi che è nata prima come pensiero, poi come desiderio e alla fine come urgenza”. Michela Calledda operatrice culturale, dal 2021 è la libraia di Piazza Martiri, nel cuore di un piccolo comune del Sud Sardegna, Siliqua 3400 anime. Dopo quattro anni il suo angolo di resistenza all’apatia e allo spopolamento resiste. E i motivi sono tanti.
“Non è stata una decisione improvvisa, ma una risposta maturata nel tempo. Avevo bisogno di uno spazio che mettesse insieme molte delle cose che amo: i libri, la parola pubblica, la cura, la possibilità di restare nel mio paese senza rinunciare al mondo”.
Michela che di cultura se ne occupa da sempre, quando apre questo spazio è consapevole che: “In Sardegna, nei paesi, tranne in qualche raro caso, le librerie sono state assenze più che presenze. Eppure abbiamo festival bellissimi, eccellenze nazionali, che dimostrano che ci sono comunità pronte, curiose e aperte. A me sembra vivo il bisogno di un luogo che le accolga, che le metta in relazione, che garantisca quella che mi piace chiamare “continuità culturale””. La Giraffa è nata per questo. Per creare una casa comune attorno ai libri.
Una libreria in un piccolo comune: che obiettivi si pone?
Aprire una libreria in un piccolo paese significa rinunciare a ogni illusione di neutralità. Non l’ho mai considerata un esercizio commerciale, ma un presidio culturale, un laboratorio, una soglia. Per me, nel mio paese – come in tanti altri luoghi periferici – la libreria è prima di tutto un atto di presenza. Un modo per dire che ci siamo, che esistiamo, con le nostre storie, con i nostri pensieri, con il diritto alla complessità. La Giraffa cerca di creare occasioni di confronto dove altrimenti non ce ne sarebbero, di creare un equilibri tra l’andarsene e il restare, di abitare la contraddizione tra il desiderio di radicamento e il bisogno di apertura.
Quali sono le difficoltà che chi percorre la tua strada oggi incontra più spesso?
Sicuramente l’isolamento. Non solo geografico, ma anche culturale ed economico. Aprire una libreria indipendente in un piccolo centro significa lavorare senza protezione, fare rete dal basso, spesso in modo artigianale, inventandosi alleanze e occasioni. La seconda difficoltà è la compressione del tempo: siamo costretti a essere librai, promotori, grafici, social media manager, addetti stampa, facchini, contabili. E spesso, tutto questo, senza che ci venga riconosciuta alcuna professionalità. La terza è l’equilibrio tra sopravvivenza e visione. Per non cedere a una logica esclusivamente commerciale, devi resistere ogni giorno alla tentazione di “fare quello che funziona”, anziché “quello che serve”. A La Giraffa, per esempio, si trovano libri che non vendono su scala nazionale ma che noi consideriamo necessari per leggere la complessità del mondo. È una scelta politica, non economica. E questo ha un costo.
Quali sono i momenti più belli che ricordi di questi anni? Quelli che hanno cancellato ogni momento difficile…
Sono molti. Mi viene in mente il nostro 25 aprile, che forse, insieme alla pastasciutta antifascista, è la festa più bella che ogni anno facciamo alla giraffa. Le persone che arrivano a Siliqua per cercare la libreria, per vederla, per sostenerci, le presentazioni più complesse che, per paradosso, sono sempre le più affollate. La sorpresa quando abbiamo annunciato le nostre Giraffe a Domicilio di essere coperti di richieste: abbiamo percorso quasi 800 km in due mesi e abbiamo dovuto mettere un argine perché non riuscivo più a gestire la libreria fissa e quella itinerante insieme.
Oggi più che mai gestire una libreria è un atto politico. Spesso porti scrittrici e scrittori che con i loro testi interpretano questa terribile e complicata attualità. Come reagisce la comunità?
Ho sempre considerato quello della Giraffa un progetto politico oltre che culturale e poetico. Viviamo in un tempo in cui la parola pubblica è stata svuotata, urlata, manipolata. Portare in un paese libri che parlano di guerra, di lavoro, di carcere, di scuola, di colonialismo, di migrazione, di antifascismo, è una forma di militanza culturale. La nostra comunità risponde con entusiasmo e curiosità perché c’è voglia di confrontarsi, di parlare e di ascoltare. Non piacciamo a tutti, eh. E lo sappiamo. Ma va benissimo così.
Perché hai scelto come nome quello della Giraffa?
Perché è il mio animale preferito. Palmiro Togliatti parlava del PCI paragonandolo a una giraffa: “un animale strano, ma reale” e questa suggestione ha avuto il suo peso nella scelta. La giraffa ha una visione lunga – guarda lontano – ma cammina con grazia, senza arroganza. Ha un cuore grandissimo, il più grande dei più grandi del regno animale in proporzione al corpo. Mi sembrava perfetta per raccontare quello che vogliamo essere: un luogo con una visione ampia, la testa tra le nuvole, ma con i piedi piantati nella terra. Un luogo capace di cura e radicalità insieme.
E poi ci piaceva trarre ispirazione dalla comunicazione non violenta il cui linguaggio si chiama, appunto, linguaggio giraffa. Un po’ come vorrei facesse la libreria: non urlare, ma lasciare il segno.
Hai mai pensato di abbandonare il progetto? E se sì, cosa invece ti porta a resistere e a continuare?
Per ora mai, anche se a volte mi sento molto stanca, fuori posto,inutile. Ci sono giorni in cui tutto è pesante: i conti, le bollette, la pressione di dover tenere tutto in piedi. Ma poi succede sempre qualcosa. Può essere un gesto, una parola, uno sguardo, un libro nuovo, appena uscito.
Succede che qualcuno ti dica che la piazza, quando la tua serranda è abbassata, non è la stessa, che quei giorni che hai chiuso “ci sei mancata” e allora ti ricordi perché hai cominciato. E quindi resisti. Anche se sei stanca.
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