C’è una luce particolare negli occhi di Manuela Mameli quando parla di musica. La cantante sarda — nata a Triei e cresciuta a Bari Sardo — ha fatto della contaminazione tra jazz e tradizione isolana la cifra più autentica della sua voce artistica.
Ma per lei, tutto nasce da un gesto naturale, quasi istintivo. «Quando una canzone riesce ad arrivare a una persona, è priva di ogni etichetta. Non riesco a dire quanto attingo dal mio patrimonio sardo, da quello commerciale o dal jazz che studio da vent’anni. È tutto molto istintivo, per farlo non devo pensarci».
Ricorda ancora quando, durante gli anni di studio al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, alcuni colleghi le chiedevano come facesse a far trasparire “quel feeling sardo” nei brani jazz. «Ovviamente non sapevo cosa rispondere. Ognuno forse ha anche le proprie percezioni».
Per capire da dove nasce la sua voce ibrida e autentica, Manuela torna indietro di qualche anno. «Avevo diciannove anni e ho preso il diploma di ragioneria a Tortolì solo perché non ebbi il coraggio di andare a Cagliari. La mia famiglia mi avrebbe sostenuta, ma per insicurezza e paura non partii. Quella scelta l’ho rimpianta per anni».
Poi il salto. L’ammissione al Conservatorio di Cagliari, gli studi di jazz — “l’unica realtà istituzionale più vicina all’Ogliastra” — e, con essi, una crisi profonda. «Mi chiedevo: chi sono davvero? Devo cantare jazz? Pop? Musica sarda? Qual è la mia strada? Dovevo abbandonare il sardo per fare questo?».
Il bivio si è risolto con un atto di fiducia. «Qualcosa mi diceva: Canta quello che ti fa stare bene. Ho capito che non era la musica a mettere i confini, ero io. Da lì ho iniziato a liberarmi».
La conferma è arrivata con la tesi di laurea al Conservatorio, «una ricerca sperimentale sui punti di contatto tra la musica sarda e il jazz». Forse, confessa, «volevo anche giustificare quella mia intuizione? Dimostrare che un legame esiste davvero?». Ma la conclusione è semplice e potente: «La musica non si spiega, si sente».
Ogni brano di Manuela Mameli sembra attraversato da una vibrazione intima, profonda. «Mi ritengo una persona molto, molto spirituale», racconta. «Mi emoziono facilmente. Quello che esce fuori da me e va a nutrire i miei brani è semplicemente una trascrizione in lettere di ciò che il mio sentimento mi fa sentire».
Cita Rilke: “L’arte nasce da un bisogno di interiorità”. E aggiunge: «Ogni brano è un tentativo di dare voce a quella parte di me o di noi che non sempre riesce a parlare con le parole».
Per Manuela, essere “globale” non significa rinunciare alle radici, ma portarle con sé nel mondo. «Ah, ma è fondamentale», dice con orgoglio. «Vado fiera di raccontare la mia storia. Mi piace il patrimonio musicale che abbiamo, mi piace proprio. Non faccio fatica ad apprezzarlo».
E quando canta all’estero, lo fa con un simbolo concreto. «In Germania ho portato con me una pergamena con le firme dei miei sindaci, Ivan Mameli e Annassunta Chironi, i saluti istituzionali del mio paese. Essere globale non significa perdere le radici, ma portarle nel mondo».
Cresciuta tra Triei e Bari Sardo, Manuela racconta di luoghi “a misura d’uomo”, dove la semplicità è una scuola di vita. «Ho capito che le cose grandi in cui manca la semplicità non possono davvero essere grandi».
Quella lezione la accompagna anche nella musica. «Studiare jazz fuori non è sempre stato compreso dalle mie comunità, ma è normale. È come se un chirurgo tornasse esperto di bisturi e pretendesse che tutti parlino di bisturi. Io porto le mie competenze, le metto al servizio della comunità».
Lo fa anche nei laboratori di canto che conduce con l’associazione Le Ginestre di Triei: «Ho allievi da Tortolì, Lotzorai, Baunei, Osini, Villaputzu, Santa Maria Navarrese e Bari Sardo. Con loro parlo anche di questo. Forse è grazie alle mie radici semplici che riesco a guardare il jazz con occhi sinceri, cercando solo la verità del suono e dell’emozione».
Quando sceglie di cantare in sardo, lo fa con consapevolezza. «Alcuni concetti, diciamocelo chiaramente Michela, in sardo sono più belli. Hanno un suono, un colore, una forza che in italiano non sempre trovi».
Per lei, la scelta linguistica è estetica, affettiva e anche politica: «Il sardo ha una musicalità calda e ruvida insieme, come fumo che esce dalla terra. È la lingua dei miei nonni, dei miei ricordi, la mia lingua del cuore. E ogni volta che canto in sardo affermo che la nostra è una cultura viva, che non deve chiedere il permesso di esistere».
«Cantare la Sardegna per me è prima di tutto un atto d’amore», dice senza esitazione. «Ogni volta che canto in sardo, anche se ho davanti migliaia di persone straniere, mi sento come se fossi sola. È un momento che somiglia a una preghiera».
Ma è anche un gesto di resistenza culturale: «Una resistenza dolce. È come portare nel mondo un luogo che non smette mai di chiamarti. Le radici, per me, non sono un limite ma una ricchezza».
E quando il pubblico si emoziona, capisce che quel seme ha attecchito: «Sento che quando canto la gente mi dà fiducia e si affida totalmente alla mia voce. È lì che capisco che quell’amore è stato riconosciuto».
Nel mondo della musica d’autore e del jazz, ancora prevalentemente maschile, Manuela non ha mai sentito il bisogno di “cantare più forte”. «Ogni volta che ci sono stati progetti interessanti o proposte valide, sono sempre state accolte con rispetto», spiega.
«Non serve alzare la voce, serve essere veri e coerenti. Quando porti verità nella tua musica, quella autenticità arriva». E aggiunge con orgoglio: «Alcuni colleghi si sono anche appassionati di Sardegna dopo aver suonato con me dei brani tradizionali. Questo è bello!».
Per lei, vulnerabilità e presenza artistica coincidono. «L’arte è fatta di vulnerabilità. Se sali su un palco devi dar accesso all’anima. Io non amo definirmi artista, sono una musicista. Quando canto sento di dover aprire una porta: il pubblico deve vedere dentro di me».
Esporsi fa parte del mestiere. «È il prezzo da pagare, ma per me è naturale. Ho capito che non serve nulla di straordinario per far arrivare la tua musica, basta sentirla, viverla. Come quando sei innamorato: se lo sei davvero, se ne accorgono tutti».
Alle giovani cantanti sarde che la guardano come un modello, Manuela offre un consiglio semplice ma essenziale: «Non cercare di piacere a tutti. È naturale voler essere apprezzati, ma non si può piacere a tutti. L’importante è restare coerenti con ciò che piace a noi stessi. Nemmeno la Nutella piace a tutti, figuriamoci un cantante!».
«Coltivare la voce come una pianta», dice, «innaffiarla con studio, ascolto, libertà, confronto e rispetto».
Poi conclude con una riflessione che è insieme manifesto e dichiarazione d’amore per la sua terra: «La Sardegna, per me, non è solo un luogo, è un modo di sentire, respirare e stare al mondo. Cerco, per quanto posso, di essere all’altezza di tanta bellezza quando porto questo patrimonio nel mio canto e cerco di rimanere fedele a me stessa. È la cosa più importante».

Manuela Mameli

Manuela Mameli
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