Accadde Oggi. 17 giugno 1983: l’arresto di Enzo Tortora, il più clamoroso errore giudiziario italiano.
Titolo: L’arresto di Enzo Tortora: il più clamoroso errore giudiziario nella storia italiana.
Il 17 giugno 1983 segna una delle date più oscure e drammatiche nella storia della giustizia italiana: l’arresto di Enzo Tortora, un nome che avrebbe diviso e sconvolto l’opinione pubblica e che ancora oggi rappresenta un tragico monito sull’errore giudiziario. In quell’alba, un maxi blitz senza precedenti coinvolse 856 persone in 33 province, da Bolzano a Palermo, segnando una svolta epocale nel sistema giudiziario italiano. Tra gli arrestati figurava anche Giuseppe Puca, noto come ‘o Giappone, camorrista napoletano il cui nome appariva nell’agendina come uno dei tanti, ma il destino di Tortora era diverso: un volto amato dal pubblico, il più popolare tra i personaggi dello spettacolo, che si trovò improvvisamente travolto da un’onda di accuse infamanti. La sua vita, la sua carriera e la sua reputazione furono devastate da un’accusa infondata di associazione a delinquere e traffico di droga, basata su prove inconsistenti e testimonianze inconsistenti. Enzo Tortora, che aveva combattuto con coraggio contro la malattia e le ingiustizie, si trovò intrappolato in un incubo giudiziario che divise l’Italia tra chi credeva nella sua innocenza e chi si lasciava influenzare dalle accuse. Dopo un lungo calvario, la sua vicenda si concluse tragicamente: il 17 giugno 1983, 34 anni fa, morì a causa di una malattia devastante, lasciando un’eredità di dolore, speranza e riflessione sulla necessità di una giustizia più equa e umana. La sua vicenda rimane un esempio vivo di come un errore giudiziario possa distruggere vite e mettere in discussione i pilastri stessi del nostro sistema legale.
Innocentisti e colpevolisti, con nomi illustri schierati dall’una e dall’altra parte, da quello di Camilla Cederna, sicura che si trattasse di un arresto eccellente, a quelli più prudenti di Enzo Biagi e Indro Montanelli, che, dopo un’iniziale tentennamento, presero posizione nettamente a favore del giornalista, autore e conduttore televisivo. In aiuto del quale intervenne con una campagna mediatica con pochi precedenti il partito radicale di Marco Pannella. Come riporta l’Agi, Tortora, sembrava essere scritto su quella agenda, accanto a un recapito telefonico che però ad un controllo risulta subito essere quello della di una sartoria e non quello di una abitazione o luogo di lavoro del presentatore di Portobello. È proprio la trasmissione più seguita d’Italia è stata in qualche modo il fulcro di un caso clamoroso di errore giudiziario cominciato quando il giudice istruttore Giorgio Fontana firma gli arresti, contestando a Enzo Tortora i reati di associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di droga. Sono le 4 del mattino quando i carabinieri portano in carcere il presentatore, esibendo a favore di telecamere l’uomo ammanettato.
Complessivamente, in quei movimentati sette mesi passati da Tortora in carcere e poi durante gli anni dei tre gradi di giudizio del processo, saranno 19 le persone che diranno di averlo visto spacciare droga, tra le quali il pittore Giuseppe Margutti, già con precedenti per truffa e calunnia, e la moglie Rosalba Castellini, che raccontano agli inquirenti di averlo visto cedere sostanze stupefacenti già negli studi di Antenna Tre. L’assoluzione, dopo una condanna in primo grado a 10 anni di carcere, in Corte d’Appello, arriverà con formula piena il 15 settembre 1986 e poi il sigillo della Cassazione il 1987. Il 18 maggio di un anno dopo Tortora muore. Muore senza sentire le scuse di Gianni Melluso, che le porgerà alle figlie in una intervista rilasciata all’Espresso nel 2010. Ma scuse non arriveranno da nessuno dei magistrati che contribuirono a quella incriminazione e carcerazione ingiusta.
“Con gli elementi a nostra disposizione, non potevamo fare altrimenti. L’arresto era obbligatorio, non esistevano i domiciliari. La famosa telefonata al numero dell’agendina di Puca, come è scritto negli atti, fu fatta subito e rispose una sartoria. C’erano, in quel momento, altri elementi d’accusa. Vanno sempre rispettati sentenze e processi. Da pm, ho solo fatto il mio lavoro in onestà e buona fede”, disse a Repubblica nel 2015 Felice Di Persia, insieme a Lucio Di Pietro pm nell’inchiesta Tortora. Che del processo mai aveva parlato prima perché “assistevo a strumentalizzazioni, spesso in cattiva fede, e disinformazione giudiziaria. Ho atteso l’assoluzione piena del Csm, che riconobbe l’onestà e la limpidezza professionale del nostro lavoro”. Quell’istruttoria comunque “fu importante nella lotta alla camorra, in anni di tremenda emergenza criminale”. Solo ora un altro dei magistrati che accusarono il presentatore, Diego Marmo, ha ammesso di aver avuto torto e ha chiesto scusa.
Eppure una perizia grafica aveva mostrato che quel nome sull’agendina di Puca era Tortona e non Tortora, un indizio che insieme al fatto che il numero telefonico corrispondeva a quello di una sartoria avrebbe dovuto mettere sull’avviso gli inquirenti. E poi c’era la faccenda dei centrini, quei centrini inviati da Pandico e altri detenuti a Pianosa alla redazione di Portobello perché fossero messi all’asta, per raggranellare denaro. Nel caos della redazione, i centrini si persero e Tortora, venuto a conoscenza del problema, invio a Pandico una lettera di scuse e ottocentomila lire al risarcimento. Sempre secondo la ricostruzione corrente di quel caso, Pandico sviluppò una forma di odio persecutorio nei confronti del presentatore e diede il via alla stura di dichiarazioni di pentiti che lo incastravano.
Proprio quelle dichiarazioni che Michele Morello, il giudice che ha riabilitato Tortora e permesso la sua assoluzione, ha passato ai raggi-x. Il suo racconto dell’inchiesta viene da una intervista a ‘La storia siamo noi’ trasmissione Rai. “Per capire bene come era andata la faccenda, ricostruimmo il processo in ordine cronologico – spiega – partimmo dalla prima dichiarazione fino all’ultima e ci rendemmo conto che queste dichiarazioni arrivavano in maniera un po’ sospetta. In base a ciò che aveva detto quello di prima, si accodava poi la dichiarazione dell’altro, che stava insieme alla caserma di Napoli. Andammo a caccia di altri riscontri in Appello, facemmo circa un centinaio di accertamenti. Di alcuni non trovammo riscontri, di altri trovammo addirittura riscontri a favore dell’imputato. Anche i giudici, del resto, soffrono di simpatie e antipatie. E Tortora, in aula, fece di tutto per dimostrarsi antipatico, ricusando i giudici napoletani perché non si fidava di loro e concludendo la sua difesa con una frase pungente: ‘Io grido: “Sono innocente”. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi’“.
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