Venti anni in schiavitù: 40enne soggiogata da sedicente sociologo
#Italia La donna sarebbe stata in balìa di due uomini (il finto sociologo e un altro uomo) che le avrebbero usato violenze fisiche, sessuali e morali. L'accusa è di riduzione in schiavitù, mentre per l'altro uomo di atti persecutori.
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Una donna di 40 anni, per oltre un ventennio, sarebbe stata in balìa di due aguzzini che le avrebbero usato violenze fisiche, sessuali e morali. Come riporta Tgcom, due persone, R.R. di 70 anni, di Cittanova, e F.R.D., di 55, di Polistena, sono state arrestate dagli agenti di Gioia Tauro. Per il 70enne, che si era finto sociologo per guadagnare la fiducia della donna, l’accusa è di riduzione in schiavitù, mentre per l’altro uomo di atti persecutori.
Gli arresti sono stati fatti in esecuzione di un’ordinanza emessa dal gip di Reggio su richiesta della Procura. L’aguzzino si era finto sociologo – La 40enne aveva conosciuto colui che sarebbe diventato il suo aguzzino in un centro per anziani della Piana di Gioia Tauro. L’uomo, facendole credere di essere un “sociologo” era riuscito a guadagnare la fiducia della vittima e si era offerto di aiutarla a curare una forma di anoressia di cui la ragazza, allora ventenne, era affetta. In poco tempo il sedicente sociologo, secondo quanto emerso, aveva annullato, in maniera totale, la volontà della donna, obbligandola a subire rapporti sessuali, violenze fisiche e vessazioni di ogni genere.
Parallelamente l’uomo aveva poco a poco conquistato anche la fiducia dell’intera famiglia della donna dimostrandosi generoso e protettivo anche verso tutti gli altri componenti della sua famiglia. Si era inoltre accreditato come massone, con numerosi agganci tra le forze dell’ordine, la politica, la magistratura e il clero. Il lavoro psicologico condotto sulla propria vittima aveva portato l’uomo a illudere, soggiogare e coartare, fisicamente e psicologicamente, la donna al punto da annullarne la forza di volontà anche perché intimorita dalle possibili ripercussioni nel caso non avesse assecondato le richieste del suo “aguzzino-protettore”. Richieste che, ben presto, sono degenerate in gravi violenze fisiche ed innumerevoli pretese di prestazioni di natura sessuale, sovente ottenute in maniera violenta. Dalle indagini è emerso anche che il 70enne, insieme all’altra persona arrestata con l’accusa di stalking, a partire dal 2017 avevano seguito con la loro autovettura reiteratamente la vittima fino alla sua abitazione e minacciandola anche di morte. Avevano controllato ogni suo spostamento, provocandole un perdurante e grave stato di ansia e di paura ed un fondato timore per la propria incolumità.
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21 dicembre 1979: Fabrizio De André e Dori Ghezzi vengono liberati dai rapitori

La liberazione ebbe luogo in seguito al pagamento di un cospicuo riscatto, e fu incredibilmente questione di poche ore: Dori fu rilasciata alle 23 del 21 dicembre, Fabrizio alle 2 del 22. I due erano stati rapiti a Tempio il 27 agosto.
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Negli anni ’70 Fabrizio “Faber” De André acquistò un vasto terreno nei pressi di Tempio Pausania. Lì si stabilì già pochi anni dopo, in cerca della tranquillità necessaria soprattutto alla sua compagna, Dori Ghezzi, in attesa della figlia della coppia, Luisa Vittoria. Fu proprio da quella casa, però, che la notte del 27 agosto 1979 Faber e Dori vennero rapiti dall’Anonima sarda, banda di sequestratori che fin dagli anni ’60 terrorizzava l’Isola. Il 21 dicembre la liberazione.
Per quattro mesi, Fabrizio e Dori furono costretti a una vita fatta di catene, bende sugli occhi e ore passate legati agli alberi dei fitti boschi dell’entroterra. Sottoposti a un trattamento degradante fisicamente e psicologicamente, da carcerieri che però – come raccontarono poi i due – mantennero un comportamento “tutto sommato umano”: erano lunghi e frequenti i momenti passati senza i cappucci in testa, e mai mancarono le sigarette e i cerini dai quali Faber quasi dipendeva. L’attesa era poi intervallata da lunghe conversazioni sulla politica, improvvisati giochi di carte e le chiacchiere alcoliche di alcuni dei rapitori, uno dei quali – sotto gli effetti dell’alcol – confessò il proprio dispiacere per il trattamento riservato “soprattutto a Dori”, come raccontò poi la donna.
La liberazione ebbe luogo in seguito al pagamento di un cospicuo riscatto, e fu incredibilmente questione di poche ore: Dori fu rilasciata alle 23 del 21 dicembre, Fabrizio alle 2 del 22. Fu Giuseppe De André, padre del cantautore genovese, a pagare nella quasi totalità i 550 milioni richiesti per il rilascio. A novembre del 1985, poi, tutti e dodici gli appartenenti alla banda furono arrestati e condannati. Al processo Faber ribadì il proprio perdono per gli esecutori materiali del rapimento, e si costituì parte civile nell’accusa ai soli capi della banda, economicamente agiati – un noto veterinario toscano e un assessore comunale sardo del PCI – e quindi privi della necessità, che il cantautore considerava evidentemente un attenuante per gli altri uomini.
Un’intera raccolta di brani – priva di titolo, ma nota come L’indiano per il pellerossa raffigurato in copertina – fu il frutto artistico dell’esperienza, che legò ancor più saldamente il cantautore alla Sardegna.
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