Scomparsa di Martina Lattuca, parla la cugina: “Non è svanita nel nulla. Non crediamo al gesto volontario”
Alessandra Murgia, la cugina di Martina, elenca uno a uno gli elementi che ritiene incongruenti.
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Un appello accorato, intenso e dettagliato: è quello diffuso da Alessandra Murgia, cugina di Martina Lattuca, la 49enne scomparsa il 18 novembre scorso. Le ultime tracce della donna la collocano a Calamosca, nei pressi della Sella del Diavolo. Da allora, solo alcuni effetti personali — “uno zainetto intatto, le scarpe praticamente nuove” — e nessun’altra certezza.
Il post, condiviso sui social, è un grido di dolore ma anche una richiesta di giustizia. “Da tre settimane questo profilo è muto… perché mia cugina è scomparsa nel nulla, nel cuore di una città piena di antenne, telecamere, cellulari accesi”, scrive Murgia, ricordando come le ricerche siano scattate in tempi rapidissimi e abbiano coinvolto un dispiegamento imponente di forze: Vigili del Fuoco, Soccorso Alpino, Guardia Costiera, Guardia di Finanza e Carabinieri. “Hanno scandagliato metro per metro la Sella del Diavolo e il mare sottostante, con una dedizione rara. Grazie davvero.”
Ma a colpire è soprattutto la ferma opposizione della famiglia rispetto all’ipotesi del gesto volontario o dell’incidente. “Ci è stato chiesto di credere a ricostruzioni che non tornano.” Murgia elenca uno a uno gli elementi che ritiene incongruenti: il percorso impervio che Martina non avrebbe mai affrontato da sola, le condizioni meteo avverse, gli oggetti ritrovati in condizioni troppo buone, le celle telefoniche “agganciate a sette chilometri di distanza”, la personalità prudente e riservata della donna. “E soprattutto ci è stato chiesto di credere che una madre amorevole avrebbe scelto volontariamente di non tornare a casa dal proprio figlio. No. Noi diciamo no.”
Il post diventa così una richiesta forte, diretta: “Martina merita la verità. La merita suo figlio, sua madre, sua sorella. La merita una comunità intera che non può vivere pensando che Calamosca sia un buco nero da cui si scompare.” Murgia invita chiunque fosse presente a Calamosca quella mattina a farsi avanti: anche un dettaglio minimo potrebbe rivelarsi decisivo. “Il tempo per trovare Martina è adesso. Forse potrebbe ancora essere viva. Ma non sulla cima della Sella del Diavolo.” Un appello che riaccende l’attenzione su un caso che, dopo tre settimane, resta avvolto nel mistero e nel dolore.
Il post intero: “Da tre settimane questo profilo è muto.
Non avevo più niente da dire, perché tutto in questi giorni, davvero tutto, mi è sembrato vuoto, inutile, ingiusto.
Perché da tre settimane mia cugina Martina Lattuca, una ragazza buona, riservata, timida, gentile, generosa, amata da chiunque l’abbia incrociata anche solo una volta, è scomparsa nel nulla.
Scomparsa.
A Calamosca, a Cagliari.
Nel cuore di una città viva, affollata, piena di antenne, telecamere, cellulari accesi.
Una città in cui non dovrebbero esistere angoli dove si sparisce senza lasciare traccia.
In meno di due ore dal primo allarme è partito un dispiegamento enorme di forze: Vigili del Fuoco, Soccorso Alpino, Guardia Costiera, Guardia di Finanza, Carabinieri.
Sono stati impiegati elicotteri con termocamere, droni speciali con rilevatori di volumi, unità cinofile da soccorso, sonar di profondità, sommozzatori specializzati, battelli e squadre di terra.
Hanno scandagliato metro per metro la Sella del Diavolo e il mare sottostante.
Con una dedizione e un’umanità rare.
Glielo dobbiamo dire: grazie.
Grazie davvero.
Ma Martina non è stata trovata.
E dopo appena tre giorni, mentre il nostro crollava, sul resto del mondo è calato un silenzio che fa più male di qualsiasi risposta.
E in questo silenzio sono arrivate le ricostruzioni.
Le ipotesi.
Le versioni “comode”.
Quelle che fanno sembrare tutto semplice, già scritto, già chiuso.
Ci è stato raccontato che abbia imboccato il sentiero della Sella del Diavolo, quando la telecamera che l’ha ripresa per l’ultima volta non inquadra quel punto.
Ci è stato detto che abbia preso una decisione da depressa cronica, quando non lo era, mentre noi già nelle prime 24 ore avevamo chiesto l’acquisizione di tabulati, celle telefoniche, video e testimonianze.
Ci è stato chiesto di credere che Martina, che era timida, prudente, poco incline ai rischi, che non si avventurava mai da sola, che aveva paura dei percorsi difficili, che non conosceva la zona e che non aveva alcuna esperienza di trekking, abbia deciso quel giorno di percorrere un tratto che gli stessi uomini del Soccorso Alpino definiscono difficile perfino per loro, e questo senza considerare l’aggravante della pioggia di quel giorno.
Ci è stato chiesto di credere che abbia aperto l’ombrello per non bagnarsi prima di compiere un gesto estremo e che dopo averlo usato per ripararsi dalla pioggia, lo abbia ripiegato accuratamente e riposto nello zaino, proprio come avrebbe fatto in un giorno qualsiasi, non certo prima di lanciarsi da un dirupo.
Ci è stato detto di credere che per uccidersi abbia superato un tratto scivoloso, aggirando gli spuntoni di roccia, per lanciarsi con forza oltre un bordo che, in condizioni normali, fa paura perfino agli escursionisti esperti.
Ci è stato chiesto di credere che le correnti abbiano trascinato via un corpo vestito, pesante, ma non le sue scarpe, ritrovate là sotto pressoché intatte.
Una ritrovata dopo ventiquattr’ore dalla scomparsa, l’altra dopo cinque giorni, incuranti del vento e delle correnti che, invece, avrebbero portato via Martina.
Entrambe praticamente nuove, come se non avessero mai toccato rovi, pietre o un percorso particolarmente impervio e reso ancora più scivoloso dalla pioggia.
Ci è stato chiesto di credere che dopo un salto di oltre settanta metri, il suo zainetto da città sia rimasto integro, con tutto il contenuto all’interno e con le cinghie ancora attaccate.
Che il suo cellulare abbia agganciato un ripetitore distante sette chilometri dal punto in cui è stata ripresa l’ultima volta, nonostante l’area sia letteralmente disseminata di antenne e ripetitori.
Che nessuno l’abbia vista passare e che, dunque, una madre amorevole abbia deciso volontariamente di non tornare a casa dal proprio figlio. Lei, che anteponeva sempre gli altri a sé stessa. Lei che pensava prima al figlio, alla madre, alla sorella, al lavoro, a chiunque avesse intorno.
Siamo stati invitati a credere che avrebbe deciso di ferire profondamente proprio tutte queste persone.
Ci è stato chiesto di credere che una ragazza così riservata, così timorosa di dare dispiaceri, così attenta a non essere un peso per nessuno, abbia scelto di finire su tutti i giornali lasciando dietro di sé solo domande e dolore.
Ecco, no.
Noi diciamo no.
Con tutta la forza che abbiamo.
Se ci fosse stato anche un solo indizio credibile per pensare a un gesto volontario, lo avremmo accettato.
Non siamo una famiglia che si nasconde dalla verità.
Ma la verità, quella vera, non è questa.
Appiattirsi sull’ipotesi più comoda non fa giustizia a Martina.
E soprattutto non protegge nessuno.
Perché oggi è lei.
Domani potrebbe essere chiunque.
E nessuna città può permettersi un luogo dove le persone svaniscono come in una storia dell’orrore, lasciando dietro di sé solo il rumore del mare, uno zaino e due scarpe pulite.
Martina merita la verità.
La merita lei, che mai avrebbe scelto da sola una strada oscura e pericolosa.
La merita suo figlio.
La merita sua madre.
La merita sua sorella Sara, per conto della quale e d’accordo con lei scrivo.
La merita chiunque l’abbia amata.
La merita una comunità intera che non può vivere con l’idea che Calamosca sia un buco nero dal quale si può scomparire senza lasciare tracce.
Chiediamo a chiunque fosse a Calamosca quella mattina di presentarsi alle Forze dell’Ordine e riferire qualunque dettaglio, anche il più piccolo, perché anche ciò che sembra insignificante potrebbe cambiare tutto.
Chiediamo ai media di rompere questo silenzio che fa più chiasso del nostro dolore.
Chiediamo alle istituzioni di fare luce sui fatti, tenendo conto di questi indizi e di tutti quelli che si troveranno se verranno cercati.
Il tempo per trovare Martina è adesso.
Forse Martina potrebbe ancora essere viva.
Ma non sulla cima della Sella del Diavolo.”
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