Veronica Matta, tra panadas e tradizioni alimentari: “Vi racconto la mia Sardegna”

Articolo di Massimiliano Perlato.
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Veronica Matta è antropologa indipendente e custode di storie di cibo, donne e comunità nella Sardegna che resiste.
Come nasce la tua passione per il cibo, le donne e le comunità della Sardegna?
Per farla breve, potevo diventare una filosofa… invece sono finita con le mani nella farina e il taccuino in borsa. Antropologa indipendente, sarda per nascita e per convinzione, sono cresciuta in mezzo ai profumi della cucina e alle chiacchiere di sala del ristorante di famiglia, Sa Panada, ad Assemini. Lì, da bambina, scorrazzavo tra i tavoli insieme ai miei due fratelli. In quel caos meraviglioso – dove il cibo era una lingua viva, fatta di gesti e di storie – ho imparato che nutrire è anche un modo per raccontare il mondo.
Da lì è partito tutto. Mio padre Carlo, originario di Siddi, nella Marmilla, portava con sé tutta l’anima della sua terra. Aveva un talento raro: sapeva cucinare con passione, certo, ma era anche capace di leggere le persone, ascoltarle, accoglierle attraverso il cibo. Il ristorante non era solo un locale, ma un punto d’incontro – alla fine degli anni ’60 – tra tradizione e cultura, dove si respirava la storia viva della Sardegna.
Dopo la maturità, ho scelto di studiare Filosofia all’Università di Cagliari: mica potevo rinunciare a Hegel e alla fenomenologia dello spirito. A 23 anni, quasi pronta per la tesi, vinsi una borsa Erasmus per Madrid. Ma – sorpresa! – per un errore burocratico finii non nella facoltà di Filosofia, ma in quella di Scienze Sociali alla Complutense. E lì, invece di disperarmi (anche se un bel pianto me lo sono fatto… era una delle mie prime esperienze lunghe lontano da casa), scoprii l’antropologia e le sue indagini sul campo: un colpo di fulmine.
Una volta rientrata in Sardegna, ho messo da parte (con affetto) Hegel e il mio caro Prof. Lecis e ho concluso i miei studi in Antropologia culturale, seguita dal compianto Giulio Angioni.
Qual è stata la tua prima esperienza di ricerca sul campo?
Un viaggio nelle cucine, certo, ma anche – e soprattutto – tra i seni delle donne che avevano allattato per una vita: primi templi del nutrimento, capaci di generare cibo senza utensili, senza fornelli, senza ricette. Bastavano il corpo, il tempo, l’amore e parecchi brebus.
E io lì, con il mio Pandino bianco che sfrecciava (si fa per dire!) tra le strade di Siddi e della Marmilla, taccuino e registratore alla mano, orecchie ben aperte, a raccogliere ogni storia, ogni dettaglio, ogni sfumatura. Un viaggio dentro le case, ma anche dentro il cuore delle comunità.
Quella ricerca, dedicata all’alimentazione popolare e in particolare alla cultura dell’allattamento e dello svezzamento, è diventata la mia prima pubblicazione: Il dono del latte. Appena laureata, l’ho presentata ad Alghero, in un convegno internazionale sui fattori determinanti della mortalità infantile in Sardegna. Un debutto che non dimenticherò mai.
Tutt’oggi, ogni mio progetto parte da lì: dal rispetto per la cultura materiale, dal desiderio di ascoltare i territori e dalla volontà di dare voce ai saperi locali, custodendoli e valorizzandoli come strumenti di futuro. Per me, il cibo non è mai solo da mangiare. È da capire, ascoltare, tramandare.
Il mio lavoro oggi si svolge tra ricerca, scrittura e progettazione sociale: con l’associazione Sa Mata mi occupo di promuovere progetti che valorizzano la cultura locale, il cibo fatto in casa e la microimprenditoria domestica, con un occhio alle norme, alla sostenibilità e al progresso delle comunità rurali e delle biddas.
Oltre alla ricerca, la scrittura con la pubblicazione dei 4 libri sembra avere un ruolo centrale nel tuo lavoro. Come si è sviluppata questa passione?
Ogni mio libro è nato così: da un’inchiesta, da una domanda incontrata per strada. Ogni libro è un pezzo di strada fatto insieme a qualcuno. Ricordo ancora come fosse ieri quel primo articolo per Sardi News di Giacomo Mameli, con un titolo che diceva già tutto: “Quelli che il latte…”. Era il mio modo, un po’ ironico e un po’ affettuoso, di raccontare la cultura dell’allattamento al seno, nata dal lavoro di ricerca svolto durante la tesi.
Da lì non mi sono più fermata. Scrivere è diventato un modo per fissare le voci incontrate, restituire il senso delle pratiche osservate, dare forma alle emozioni raccolte sul campo. E quella tesi, tanto per dire, non è mai rimasta chiusa a lungo in un cassetto: mi accompagna ancora oggi, dopo più di vent’anni, come una bussola. Il dono del latte è stato un tentativo di restituire dignità a saperi femminili spesso dimenticati, a pratiche ancestrali legate all’alimentazione infantile, all’intimità del gesto, al legame tra madri e comunità.
Con Panada on the road ho cambiato ritmo: è nata un’inchiesta itinerante, fatta a piedi e in macchina, in aereo e in nave, tra forni domestici, piazze e mercati. Ho cercato chi ancora fa panadas con le mani e da lì sono partita per ricostruire connessioni tra la Sardegna e l’intero mondo mediterraneo: affinità, contaminazioni, varianti.
S’Arretzetariu di Carlo Matta non è solo un ricettario. È un atto d’amore verso mio padre e verso una Sardegna che si racconta attraverso il cibo. Ci sono 55 ricette, certo, ma anche storie, profumi, memorie. Ogni piatto è trattato con la stessa cura con cui lui accoglieva le persone a tavola: non si tratta solo di cucinare, ma di prendersi cura.
Infine, Fatu in Domo è più di un libro: è una guida pratica e culturale per chi sogna di trasformare la propria casa in un piccolo laboratorio del gusto, senza rinunciare all’identità, ma rispettando regole, sicurezza e legalità. Un ponte tra tradizione e contemporaneità.
In fondo, ogni mia pubblicazione nasce sempre da lì: da una ricerca sul campo, da una conversazione vera con le persone e con le sfide del presente. Scrivere, per me, è un modo di condividere ciò che ho visto, sentito, capito. E anche tutto quello che, per fortuna, devo ancora capire.
Come si è sviluppata in questi anni la tua passione per la pubblicistica?
È cresciuta insieme al mio bisogno di far circolare queste storie: non bastava più solo studiare e raccogliere dati, volevo che il grande pubblico conoscesse, comprendesse e apprezzasse queste culture.
Così ho iniziato a collaborare con testate locali, regionali e nazionali, partecipando a convegni, scrivendo articoli, recensioni, interviste e reportage sul campo. È diventato un ponte tra la ricerca accademica, la cultura popolare e le persone reali che vivono nelle biddas.
È diventato impegno, perché credo davvero che la parola scritta possa cambiare visioni e dare valore a ciò che spesso resta invisibile. E poi, diciamolo, è troppo facile stare lì a storcere il naso sfogliando i giornali che non ci soddisfano.
Come direbbe Marx, autore de Il Capitale, che ha analizzato in modo approfondito i rapporti di forza all’interno dei sistemi produttivi: nel settore editoriale, spesso gli “operai della parola” si trovano a lavorare con compensi irrisori, mentre i proprietari dei mezzi di produzione – in questo caso, delle testate – ne traggono i maggiori profitti.
Per questo, come sottolinea un caro amico, la vera libertà di stampa “non appartiene a chi detiene la proprietà degli organi di informazione, ma a chi possiede la capacità e la passione di scrivere, raccontare storie e fare giornalismo in modo indipendente. È la libertà di chi racconta con autenticità, fuori dai giochi di potere”.
E, aggiungo, è una libertà che si coltiva con un sorriso, perché alla fine la passione non si compra con il denaro, ma si alimenta con la gioia di raccontare il mondo.
Quale “bellezza dell’anima” vorresti mettere in luce attraverso le tue passioni?
Credo che la bellezza più autentica risieda nel quotidiano, in quelle cose semplici che sembrano piccole, ma non lo sono affatto: nelle mani che impastano e fermano il tempo; nei gesti delle nonne che, tramandando una ricetta, ti sussurrano chi eri; nei piccoli laboratori domestici, da cui nascono doni che tengono unite le comunità; nell’accoglienza delle case che aprono le porte e ti ricordano la forza della fiducia, della gentilezza, della nobiltà d’animo; nella dignità del lavoro semplice, perché la maggior parte delle persone non vive di grandi illusioni, ma di vita vera.
Non abbiamo inventato nulla che non esistesse già. Ma ognuno di noi può rendere la propria vita sulla terra irripetibile. Non migliore, non peggiore. Semplicemente unica. E in un tempo così denso e veloce, forse la cosa più saggia è fare poco… ma farlo bene.
Vorrei che restasse vivo il legame con la terra, con le radici, con le storie che ci hanno fatto diventare ciò che siamo. Perché senza radici non c’è frutto. Le mie passioni stanno tutte lì: nel patrimonio invisibile che molti danno per scontato, e che invece è fragile, prezioso, e merita di essere custodito, raccontato, amato.
Guardando al futuro, quali pagine vorresti ancora scrivere al “romanzo” della tua vita?
Mi piacerebbe portare le buone pratiche sarde oltre il mare, farle conoscere, intrecciarle con quelle di altri popoli del Mediterraneo. Immagino collaborazioni, scambi, esperienze condivise.
Voglio continuare a formare nuovi artigiani domestici, sostenere giovani che vivono nelle biddas e che vorrebbero restare — ma spesso non hanno strumenti, occasioni, reti. Mi piacerebbe scrivere un saggio sulla sostenibilità della tradizione in un mondo globalizzato, continuare a fare ricerca, curare mappe culturali, ascoltare i territori e restituire voce a chi la voce ce l’ha, ma non viene ascoltato.
E poi — più intimamente — desidero conservare spazi di silenzio. Tempo per quei luoghi che mi nutrono e mi danno energia. Perché anche il silenzio fa parte del lavoro, e della cura.
Da sarda, ami profondamente la tua terra. Come vedi oggi la Sardegna?
La Sardegna è un’isola meravigliosa, certo. Ma anche un’isola schiacciata. Spesso messa ai margini delle politiche nazionali, usata, sfruttata, ridotta a cartolina. Una terra bellissima ma profondamente ferita: dall’umiliazione, dalla perdita della lingua, dalle servitù militari, da modelli turistici estrattivi, da scelte economiche imposte dall’alto.
E — diciamolo chiaramente — anche da una corruzione sistemica, che si annida dentro le istituzioni, rallenta lo sviluppo e alimenta sfiducia nel popolo. È una terra che troppo spesso deve elemosinare diritti: lingua, trasporti, sanità, istruzione. Dove chi resta, lotta. E chi parte, spesso lo fa per necessità, non per sogno.
Ma la Sardegna è anche testarda. È fatta di comunità che resistono, di saperi che non si piegano, di giovani che tornano o restano, reinventando la tradizione. Una terra piena di occasioni, se solo la smettessimo di guardarla come uno sfondo da vacanza e la trattassimo finalmente come una società viva, con diritto di lingua, di parola e di visione.
Io sogno una Sardegna che non si aggrappi solo al passato, ma che abbia il coraggio di investirci sopra: una Sardegna che riesca a stare al passo coi tempi senza perdere la propria anima. Mio padre Carlo ripeteva spesso una frase pungente, che sentiva dire da certi turisti del continente: “Bella la Sardegna vista dall’alto… peccato che ci sono i sardi”.
Cruda, sì. Ma lui non la citava con rassegnazione. Anzi, la trasformava in provocazione, in stimolo, in invito a guardarsi allo specchio e a non svendere ciò che siamo. Perché spesso siamo proprio noi i primi a sottovalutarci.
Il futuro della nostra identità — parafrasando Carlo — non sta nel ripetere per inerzia le stesse “ricette”, ma nel farle evolvere. Sta nel trasmetterle ai giovani con rispetto, entusiasmo e, perché no, anche consapevolezza. Perché la Sardegna è questo: cultura viva, amore per la terra e per ciò che ci regala. È un piccolo atto di resistenza contro il “tutto uguale” e il “tutto fast”.
E se Carlo sapeva mettere amore in ogni piatto, allora sì: ogni “morso” sardo può diventare un gesto di ribellione. Ma anche un modo per dire, con semplicità e fierezza: questa è casa mia.
Infine, come vedi il rapporto tra cultura, ambiente e sostenibilità nella Sardegna contemporanea?
Tutto questo lavoro — di ricerca, ascolto, scrittura, valorizzazione dei saperi e delle pratiche quotidiane — serve anche a questo: a difendere ciò che abbiamo, il nostro paesaggio, le nostre campagne, i nostri orizzonti.
In questi anni, la vera emergenza non è solo culturale, ma anche territoriale. La Sardegna è sotto attacco da parte di nuove forme di speculazione energetica, che nulla hanno a che vedere con la sostenibilità reale e tutto con l’avidità. Distese di pannelli eolici o fotovoltaici calati dall’alto, senza alcuna visione condivisa, rischiano di trasformare la nostra isola in una colonia energetica.
Ecco perché difendere i saperi locali, il lavoro agricolo, la piccola trasformazione alimentare, il paesaggio rurale e umano delle biddas non è solo un atto culturale: è un atto politico, ecologico, di giustizia. È dire no allo sfruttamento camuffato da progresso. È dire sì a uno sviluppo che parta dai territori, dalla loro storia, dalla loro bellezza non replicabile.
Perché la vera energia di questa terra sono le sue persone. E se non la proteggiamo ora, rischiamo di perderla per sempre.
Articolo di Massimiliano Perlato

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