La Sardegna trionfa agli Italian Cheese Awards di Ancona, gli “Oscar” dei formaggi nazionali, dedicati ai prodotti realizzati con latte 100% italiano. In questa edizione, l’Isola ha consolidato il proprio prestigio con una straordinaria performance, conquistando ben quattro statuette, il massimo riconoscimento, e classificandosi con altri tre formaggi tra i migliori tre d’Italia.

Tra i protagonisti assoluti della manifestazione spicca il Caseificio Erkiles di Olzai, che ha realizzato un’impresa memorabile vincendo due premi di grande importanza. Il formaggio Maimone ha conquistato il prestigioso titolo di Formaggio dell’Anno e ha vinto il primo premio nella categoria Stagionato oltre 24 mesi, confermando la qualità eccelsa dei suoi prodotti e l’abilità dei maestri casari dell’azienda.

Un altro momento significativo è stato il conferimento del Premio alla Carriera a Salvatore Demarcus di Pattada, un riconoscimento che celebra decenni di passione, dedizione e contributo al settore caseario sardo. La sua esperienza e il suo impegno hanno lasciato un’impronta indelebile nel panorama dei formaggi italiani.

Anche il Caseificio Antonio Garau dal 1880 di Mandas ha brillato, ottenendo il premio per il miglior derivato del latte con la sua Ricotta Ducale, una specialità che esprime tradizione e maestria artigianale. L’azienda ha poi consolidato il proprio successo con Il Piccolo Giunco, classificatosi tra i migliori tre nella categoria Formaggio fresco.

La Sardegna ha continuato a far parlare di sé con altri formaggi eccellenti. Nella categoria Pasta filata, il Casizolu Brau Farm di Antonello Brau di Orotelli si è piazzato tra i tre migliori a livello nazionale, un ulteriore riconoscimento della varietà e qualità dei formaggi sardi.

Infine, il Fiore sardo DOP di Salvatore Bussu di Macomer ha conquistato un posto d’onore tra i tre migliori nella categoria Stagionato 24 mesi, riaffermando il valore di un prodotto che rappresenta l’essenza della tradizione pastorale sarda.

Questi premi non sono solo una vittoria per i singoli produttori, ma un tributo alla tradizione casearia sarda, che combina sapienza antica e tecniche moderne per creare formaggi di altissima qualità.

In Sardegna, il pane non è mai stato solo cibo. È sempre stato simbolo, rito, ingegno. Tra i tanti pani che affollano la straordinaria tradizione sarda – dal carasau al civraxiu, dal frattau al pistoccu – ce n’è uno che affonda le radici in un tempo così lontano da sembrare mitico: Su Pan’Ispeli, il pane di ghianda. Citato persino da Plinio il Vecchio, scrittore dell’antica Roma, nella sua enciclopedia “Naturalis Historia”, viene descritto come “un pane impastato con argilla del quale si nutrono i Sardi”.

Questo alimento antico risale al Neolitico e nasce in un contesto di fame e sopravvivenza. Quando il grano scarseggiava, le donne sarde guardavano alle querce, generose di ghiande mature. La raccolta era attenta: si sceglievano solo quelle ben sviluppate, simbolo di forza e nutrimento. Ma non bastava raccoglierle: le ghiande andavano sbucciate, lessate e poi depurate con un rituale tanto antico quanto affascinante.

L’acqua della bollitura veniva filtrata attraverso uno strato composto da argilla, erbe aromatiche e cenere. Questo non solo serviva a eliminare le sostanze amare e tossiche, ma aveva anche un significato profondamente spirituale. In epoca primitiva, in Sardegna era fortissimo il culto della Dea Madre, divinità della terra e della vita. L’argilla, considerata il suo sangue, aveva un valore sacro: cibarsi di quel pane significava ricevere protezione ultraterrena e conquistarsi un posto nell’aldilà.

Una volta cotte e purificate, le ghiande venivano ridotte in una sorta di “polenta” densa, modellata in pezzi, poi asciugata lentamente al sole o nel forno. Il risultato era un pane dal colore scuro, quasi nero cenere, con un sapore intenso e inaspettatamente gradevole. Nonostante la sua origine umile, Su Pan’Ispeli era tanto apprezzato che continuò a essere preparato e consumato in Ogliastra fino agli anni ’50 del Novecento.

Oggi, il pane di ghianda è quasi scomparso, ma resta uno dei simboli più potenti dell’ingegno e della spiritualità antica della Sardegna: un cibo che nutriva il corpo e, secondo chi lo preparava, anche l’anima.