Lo sapevate? Dalle radici della genziana maggiore si ottiene un ottimo liquore
Lo sapevate? Dalle radici della genziana maggiore si ottiene un ottimo liquore
Lo sapevate? Dalle radici della genziana maggiore si ottiene un ottimo liquore
In Sardegna c'è un'erba perenne molto rara, la genziana maggiore, dalle cui radici si ottiene un digestivo molto apprezzato per il suo sapore e le sue qualità.
Lo sapevate? Dalle radici della genziana maggiore si ottiene un ottimo liquore.
In Sardegna c’è un’erba perenne molto rara, la genziana maggiore, dalle cui radici si ottiene un digestivo molto apprezzato per il suo sapore e le sue qualità.
La pianta di genziana maggiore è alta da 40 a 150 cm e fiorisce per la prima volta a dieci anni di età. I fiori sono a corolla gialla, disposti alle ascelle delle foglie, in gruppi ben distanziati. La radice è a fittone. Il frutto è una capsula ovale.
Salvo pochissime stazioni sui rilievi del Gennargentu, dove è ancora presente, è una pianta rara da incontrare, a causa della (eccessiva) raccolta in Sardegna per via delle radici, che hanno proprietà medicinali: oltre ad essere un’erba antichissima, è famosa per le proprietà digestive, diuretiche, tonificanti, antibiotiche delle sue radici.
Molto amato il liquore, dove è la preziosa radice che – messa in infusione – rende particolarissimo l’amaro digestivo.
Non è molto comune. È una pianta protetta e la raccolta è vietata. Attenzione inoltre: è molto simile al veratro, pianta tossica sia per l’uomo che per gli animali.
Fiorisce tipicamente tra giugno e luglio.
Vive in prati ed alpeggi poco umidi, su terreni calcarei. È diffusa fino ai 2200 m s.l.m; in Sardegna è presente in particolar modo nell’area del Gennargentu, specie a Talana sul monte Genziana che ne prende il nome.
Il suo nome, secondo alcuni, deriva da Genzio, re dell’Illiria che nel 160 a.C., scoprì la pianta (ed i numerosi effetti benefici delle radici). L’epiteto “maggiore”, con cui è comunemente denominata la specie, si riferisce alle sue dimensioni, superiori a quelle delle altre specie del genere Gentiana, mentre il termine “lutea” si riferisce al colore giallo dei fiori (per distinguerla dalle genziane blu delle alpi).
Nella raccolta può essere confusa con il tossico veratro (Veratrum album) per la morfologia simile ma con foglie alterne e non opposte.
La pianta ha proprietà febbrifughe, toniche, vermifughe; si utilizza la radice essicata. Stimola l’appetito e aiuta la digestione. In quanto pianta medicinale veniva coltivata già durante il Medioevo. Per il gusto amaro ma profumato e le proprietà digestive viene largamente usata in liquoreria, entrando nella composizione di diversi amari.
La genziana è conosciuta fin dall’antichità per avere virtù terapeutiche, infatti veniva adoperata come antipiretico nelle febbri malariche e come rinforzante del sistema immunitario, oltre che come digestivo.
Dal gusto aromatico e definito, l’amaro di genziana viene prodotto a fine estate, tra Agosto e Settembre, quando si raccolgono le radici della pianta.
Se lo si vuole preparare in casa però, poiché la genziana è una specie protetta e la sua raccolta è sottoposta a regolamentazione, occorrerà acquistarne in erboristeria le radici essiccate.
Liquore di Genziana – ricetta
Ingredienti
Gli ingredienti necessari per la preparazione dell’amaro di genziana sono:
20 g di genziana maggiore;
10 g di menta essiccata;
la scorza essiccata di un’arancia amara;
bacche di ginepro;
foglioline di salvia;
semi di finocchio;
1 l di vino bianco secco;
80 ml di alcol a 95 gradi;
50 g di miele.
Preparazione
Sugli ingredienti va versato:
il vino bianco secco, l’alcool a 95 fino a coprirli completamente;
lasciare il tutto a macerare per almeno dieci giorni;
mescolare almeno una volta al giorno con un cucchiaio di legno;
trascorsi i dieci giorni, il liquore va filtrato con l’ausilio di un colino e vanno aggiunti , mescolando bene, 50 g di miele.
Si può quindi versare l’amaro di genziana così ottenuto, in bottiglie di vetro che vanno lasciate riposare in luogo fresco e buio.
La gradazione alcolica risultante del liquore è, in media, di 16 % vol. Il liquore di Genziana ha un colore ambrato ed è caratterizzato inizialmente da un gusto dolce, poi connotato da un’intensa nota amara.
Essendo una pianta protetta dalla L.R. 45/1979 (tab. 1 all. A) può essere raccolta, come cita l’art. 11 della legge stessa, previa autorizzazione da parte degli Ispettorati Dipartimentali delle Foreste solo “per scopi scientifici, didattici, medicamentosi e erboristici, mediante rilascio di licenze temporanee, di durata non superiore ad un anno, rinnovabile, contenete l’indicazione della località ove consentita la raccolta o l’estirpazione della specie, della finalità della raccolta e della quantità consentita e delle modalità per provvedervo…”
La radice contiene principi amari: genziopicroside (3,5 – 15 %) e amarogentina (0.01 – 0.5%); è inoltre ricca di zuccheri (genzianosio, genziobiosio, e saccarosio) fino al 50 – 60 % sul secco
Lo sapevate? Nel 1985 Papa Giovanni Paolo II in visita in Sardegna incontrò i minatori e scese a -200 metri
Nel 1985 il pontefice polacco si recò in visita in Sardegna: tre giorni che passarono alla storia. Il 18 ottobre Karol Woytyla incontrò i minatori della miniera di Monteponi, Iglesias. Con loro e con il direttore della miniera, scese a 200 metri dalla superficie.
Lo sapevate? Nel 1985 Papa Giovanni Paolo II in visita in Sardegna incontrò i minatori e scese a -200 metri.
Il Papa in miniera
Nel 1985, la Sardegna visse un momento storico destinato a rimanere impresso nella memoria collettiva. Papa Giovanni Paolo II, primo pontefice polacco della storia, dedicò tre intensi giorni alla visita dell’isola, portando con sé un messaggio di speranza e vicinanza alle comunità locali.
Tra i momenti più significativi del viaggio, il 18 ottobre il Santo Padre si recò a Iglesias, presso la miniera di Monteponi, simbolo del duro lavoro e delle difficoltà affrontate dai minatori sardi. Non si limitò a un incontro formale: accompagnato dal direttore della miniera e da un gruppo di lavoratori, Karol Wojtyła volle vivere in prima persona la realtà di chi ogni giorno affrontava le sfide del sottosuolo. Con grande umiltà e coraggio, scese fino a 200 metri di profondità, immergendosi nell’ambiente angusto e suggestivo del ventre della terra.
Quel gesto, più di mille parole, rappresentò un atto di solidarietà straordinaria verso una categoria spesso dimenticata, e divenne un potente simbolo dell’impegno del Papa per i lavoratori e per i più umili. I minatori, commossi, sentirono che la loro fatica e il loro sacrificio trovavano finalmente riconoscimento attraverso l’attenzione di una delle figure più influenti del mondo.
Quella giornata rimane una delle pagine più emozionanti del pontificato di Giovanni Paolo II e un ricordo indelebile per la Sardegna, che accolse con orgoglio e affetto il pontefice.
Papa Giovanni Paolo II visitò Iglesias e si recò nella Miniera di Monteponi per salutare i minatori della Sardegna. Durante la visita il Papa scese nella Sala Eduzione delle Acque (livello -200) dove benedisse una Madonnina posta a ricordo della giornata storica.
Col Papa scesero a meno duecento metri dal livello del mare gli uomini del suo seguito, tra cui il medico personale. Ad attendere Wojtyla una quarantina di persone. Tra loro, quasi a sorpresa, ci sono anche i segretari territoriali di Cgil, Cisl e Uil, Porcu, Ulargiu e Mura. Aspettano Wojtyla al varco, il quale non si sottrae alle domande. È un botta e risposta pacato ma incalzante, quasi un’intervista, piuttosto singolare per il posto e per il personaggio.
Il Papa incontra i minatori
Qui il discorso completo del Papa in quella giornata (fonte Vatican.va):
“Vi saluto di gran cuore, carissimi minatori, lieto di essere in mezzo a voi per questo incontro che mi è particolarmente caro. Il vostro lavoro rappresenta una tradizione che risale lontano nei secoli, perché il suolo della vostra Isola nasconde sue specifiche ricchezze. Questa vostra miniera, che sarò lieto di visitare tra poco, risale al tempo dei fenici.
Una testimonianza della mia pastorale sollecitudine per voi minatori, che vi trovate non di rado ad agire in condizioni eccezionalmente dure, è il fatto che, nel comporre l’enciclica Laborem Exercens, destinata all’esame dei problemi del lavoro, ho voluto riservarvi una speciale menzione (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 9).
Con pari affetto saluto i lavoratori delle industrie metalmeccaniche e, più in generale, i rappresentanti delle varie categorie di lavoratori qui convenuti da tutta l’isola. Ho ascoltato con vivo interesse le parole che uno di voi mi ha rivolto, e assicuro che le preoccupazioni da lui espresse a nome di tutti trovano nel mio animo eco sentita e profonda. Ringrazio anche il Presidente dell’ENI, Professor Francesco Reviglio, per l’indirizzo che mi ha gentilmente rivolto.
Il mio pensiero va anche alle vostre amate famiglie, cari lavoratori: alle vostre spose e ai figli, per il cui benessere voi spendete generosamente le vostre energie. Ritornando a casa, portate loro il mio saluto cordiale.
Ho desiderato che uno dei primi incontri del mio viaggio pastorale in questa forte terra di Sardegna fosse dedicato a voi, per darvi un segno dell’importanza che la Chiesa annette alla vita del mondo operaio.
Vengo a voi, cari fratelli, spinto dal sentimento più vivo di fraterna solidarietà e mosso dalla convinzione che, nonostante difficoltà di ogni genere, anche un tipo di attività come la vostra non deve essere di ostacolo alla realizzazione dei grandi obiettivi che danno senso e dignità alla vita.
Prima dell’avvento del cristianesimo, la fatica fisica, come ogni altra forma di sacrificio e di sofferenza, era considerata soltanto una fatalità insopprimibile della nostra esistenza, priva di orizzonti di luce. Gli antichi romani consideravano, in particolare, la miniera un luogo di condanna e, con la crudezza della stessa espressione latina “damnare ad metalla”, già significavano una sorte senza ritorno. Mi piace ricordare, a questo punto, che uno dei miei predecessori, il Papa San Ponziano, il primo Pontefice che abbia messo piede sul suolo sardo, diciassette secoli or sono, vi fu inviato quale condannato alla miniera a motivo della sua impavida professione cristiana. E oggi la Chiesa, venerandolo come martire, intende rendere omaggio a un uomo che ha testimoniato la fede fino all’ultimo sacrificio.
Le condizioni nelle quali si svolge oggi il vostro lavoro non sono più, per fortuna, quelle di allora. Esse restano, tuttavia, molto pesanti e questo vi addita a una speciale riconoscenza da parte dell’intero corpo sociale. Grazie, infatti, al lavoro oscuro portato avanti nelle profondità della terra, la comunità può far proprie nuove ricchezze, ivi nascoste, ed elaborarle per il sostentamento e lo sviluppo di tutta la famiglia umana.
Questo è infatti il disegno di Dio: chiamare l’uomo a collaborare, mediante l’impegno della mente e del braccio, nell’opera grandiosa di “soggiogare la terra”. E allora, cari lavoratori della Sardegna, voi siete sempre presenti al cuore della Chiesa, che, in forza della sua fedeltà a Cristo, vi guarda con occhi di particolare amore e di sincera sollecitudine.
Fin dal primo sorgere della cosiddetta “questione sociale”, nel secolo scorso, come conseguenza del fenomeno della grande industrializzazione, la Chiesa si è impegnata a seguirne passo passo il cammino, scegliendo di restare vicino a chi più soffre ed è indifeso ed elevando tempestivamente la propria voce contro le sistematiche violazioni della dignità della persona umana, lo sfruttamento dell’operaio, il manifestarsi di crescenti fasce di miseria e addirittura di fame.
Nel corso dei passati decenni, la Chiesa con molteplici interventi ha rivendicato per l’operaio il diritto a un lavoro dignitoso, equamente retribuito per sé e per la famiglia, e ha fatto appello a “nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro” (Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 8).
Evitando di dare al problema una visione riduttiva, la Chiesa vede il lavoro umano nell’insieme delle sue grandi componenti, sotto l’aspetto religioso, umano, familiare e sociale. Essa è consapevole che solo la fede dà un senso compiuto al lavoro collocando l’uomo – che per sua natura è lavoratore – al centro dell’universo, in rapporto con Dio. Solo così si pone il fondamento trascendente di una giustizia, che non è più lasciata all’arbitrio degli interessi di parte o al gioco delle interpretazioni ideologiche. L’attività umana di qualsiasi tipo diventa in tal modo fattore di umanizzazione, di evangelizzazione e di autentico progresso.
Carissimi lavoratori, in sintonia con l’insegnamento dei Papi che mi hanno preceduto, io non mi stanco di ripetere a tutti, ai gruppi dirigenti e alle forze sociali, che il valore del lavoro umano non può essere ridotto a semplice processo di produzione o considerato soltanto in rapporto alla sua finalità economica.
Il Papa incontra i minatori
Concezioni di questo genere hanno creato, purtroppo, le premesse di grandi ingiustizie, con conseguenze assai negative nell’evoluzione morale e civile della società. Con tali impostazioni di fondo, infatti, si altera profondamente la vera nozione del lavoro, si priva il lavoratore delle prerogative sue proprie, si distorce la verità stessa dell’uomo, che resta umiliato nella sua dignità più profonda.
La persona umana non si esaurisce nella realtà temporale, tanto meno si esaurisce nel suo lavoro.
Un segno di questa preminenza dell’uomo sulla logica della produzione è certamente da vedersi nel diritto al riposo festivo; da intendere non solo come interruzione del lavoro economico-produttivo e recupero delle forze fisiche, ma anche come tempo libero non finalizzato all’economia, che permette alla persona umana di curare di più la vita sociale, religiosa, di ritrovare se stessa, assumendo i valori superiori d’amore, d’amicizia, di preghiera, di contemplazione (cf. Gaudium et spes, 60 -61; Paolo VI, Populorum Progressio, 20).
La lapide che ricorda quel giorno
Tutti sappiamo che non è difficile per l’uomo degradarsi a causa del lavoro; tocchiamo ogni giorno con mano in concreto la dura realtà che vari sono i modi di sfruttare il lavoro umano per farne un mezzo di oppressione dell’uomo. Ma sappiamo pure che, al contrario, mediante il lavoro l’uomo, quando è posto nella sua giusta prospettiva di protagonista del mondo in cui opera, può realizzare se stesso come uomo e anzi, in certo senso, diventare più uomo (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 9). La dignità dell’uomo non si misura da quello che egli fa, dalla sua capacità di trasformazione e di elaborazione dei prodotti della terra, dalla quantità del suo profitto materiale ma da quello che egli è.
Dico di più: mediante il lavoro egli può realizzare se stesso come cristiano e, in certo senso, essere più cristiano. Ciò diventa possibile quando l’uomo, dando al lavoro il significato che esso ha agli occhi di Dio, si lascia guidare dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Allora egli si avvicina a Dio, entra nell’opera della salvezza, e il suo lavoro diviene un esercizio di fede e uno stimolo di elevazione e di preghiera.
Questa considerazione non stupisce se si riflette che al lavoro partecipa l’uomo intero, il corpo e lo spirito, indipendentemente dal fatto che il lavoro svolto sia manuale o intellettuale. Giustamente, perciò, la Chiesa ricorda il dovere di elaborare una spiritualità del lavoro nel senso cristiano dell’espressione (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 24).
Ecco perché la Scrittura Santa presenta alla nostra considerazione due quadri assai ricchi di contenuto, che io voglio qui soltanto richiamare. Nel Giardino della Genesi il primo uomo, creato da Dio, fu anche il primo lavoratore. Nella Nuova Alleanza a Nazaret, accanto alla casa di Maria, c’era un’officina di falegname, dove prima Giuseppe operaio, poi Gesù, divenuto operaio anche Lui, lavoravano per guadagnarsi il pane quotidiano, come voi, come tutti i lavoratori del mondo, col sudore della propria fronte, per il sostentamento della famiglia.
La famiglia! Essa rappresenta il legame vitale, che dà al lavoro la sua carica di amore. Motore universale, l’amore anima la finalità sociale del lavoro e lo trasforma in servizio per la costruzione di una società di fratelli: la civiltà, appunto, dell’amore.
Cari fratelli operai, debbo ancora richiamare un altro aspetto di questo problema, per arricchire il quadro che ne propone la visione cristiana.
Il Libro della Genesi insegna che l’esperienza dolorosa di un lavoro eseguito “col sudore della fronte” (Gen 3, 19) è conseguenza del peccato commesso all’inizio dall’uomo. Il peccato, carissimi, è una tragica realtà da non dimenticare: esso sta all’origine dei mali della società e delle sofferenze dell’uomo. La Chiesa, impegnata a favorire l’eliminazione delle ingiustizie dal mondo del lavoro, non è meno impegnata, sotto la guida di Dio, a combattere il peccato e a ridurne le conseguenze. Tuttavia essa è realisticamente consapevole che, nonostante gli sforzi, il dolore continua a far parte della vita del mondo. Leone XIII, il grande pontefice, che con tanta lungimiranza analizzò i problemi del lavoro, scrisse in proposito parole che oggi, alla luce della verità storica, appaiono profetiche. Egli raccomandò di non lasciarsi ingannare da chi vuol “togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali” (Leone XIII, Rerum Novarum, 14).
Il cristiano accetta il peso e la pena della fatica anche come espiazione della colpa, purificazione dell’anima, ritorno all’innocenza perduta. Ma questa concezione penitenziale del lavoro, che pure riveste la sua non trascurabile importanza, non significa rinunzia allo sforzo di cambiare le situazioni d’ingiustizia, né disimpegno dal dovere di migliorare in concreto la società. Essa vuol dire semplicemente inserimento consapevole nel mistero di un disegno divino di amore che chiede la collaborazione dell’uomo per la salvezza di tutta l’umanità e l’elevazione del mondo, trasformando l’elemento comune e diffuso del dolore in strumento di grazia. Senza questa prospettiva evangelica è impossibile comprendere il sacrificio della Croce e associarsi al suo valore immenso.
Nel parlare a voi, cari lavoratori, convenuti così numerosi da vari settori della Sardegna per riascoltare alcune linee importanti dell’insegnamento sociale della Chiesa, così ricco di fermenti e di potenzialità, è chiaro che io auspico per voi, per tutti i lavoratori sparsi nell’Isola, nell’Italia e nel mondo, e in particolare per quelli che, come voi minatori, affrontano situazioni ambientali più dure, un miglioramento delle condizioni di vita e una legislazione coraggiosa, che liberi sempre più dal pericolo di asservimento al lavoro strettamente produttivo. Vi assicuro che questa prospettiva, per me, che sono stato operaio come voi, fa parte delle mie preghiere quotidiane e della mia costante sollecitudine pastorale. E desidero vivamente che la mia esortazione vi spinga a impegnarvi a crescere umanamente e spiritualmente.
Tuttavia, mentre il mio sguardo si posa su vari settori di questa vostra assemblea, il pensiero non può fare a meno di correre verso un altro scenario, che tanto rattrista il cuore di tutti noi. È lo spettacolo, efficacemente evocato da chi ha parlato a nome vostro, di una massa di giovani di quest’Isola tenace e laboriosa i quali, per mancanza di lavoro, sono costretti ad incrociare le braccia.
Si sa che il fenomeno della disoccupazione colpisce oggi in percentuali crescenti quasi tutti i Paesi della società più industrializzata. Ma costituisce motivo di grande dolore e preoccupazione constatare, scorrendo le statistiche, che la Sardegna risulta essere una delle aree più colpite.
Senza dubbio, come ho più volte rilevato, il fenomeno può essere risolto in maniera soddisfacente solo con una giusta e razionale coordinazione di iniziative nell’ambito della comunità nazionale e anche col ricorso a trattati e accordi di collaborazione internazionale (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 18). In questo momento, però, desidero rivolgere il mio appello a tutte le autorità nazionali e regionali, a tutte le forze politiche e sociali che hanno a cuore il vero bene dell’uomo, perché, con impegno prioritario, moltiplichino i loro sforzi allo scopo di suscitare iniziative, di razionalizzare la coordinazione, perché la piaga diffusa della disoccupazione venga efficacemente affrontata, in tempi brevi ridotta, e via via definitivamente eliminata.
Sono sicuro che le organizzazioni ecclesiali, a ogni livello, sono disponibili ad offrire la loro piena collaborazione.
Con queste prospettive per l’immediato futuro, benedico di cuore tutti e ciascuno di voi, augurandovi un futuro sereno, allietato da un adeguato benessere, nel contesto di una società più giusta e concorde”.
Il giorno dopo il Papa andò a Cagliari, dove era atteso da mesi. Alle otto di sera di quel 19 ottobre, fu accolto all’ingresso del Municipio di via Roma dal sindaco dell’epoca, Paolo De Magistris. Qui, il suo discorso ai sardi fu interrotto per ben nove volte dagli applausi scroscianti dei tantissimi presenti, credenti e non. Perché quell’uomo “venuto da lontano”, con il suo messaggio universale di pace e fratellanza, era riuscito a unire cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei, musulmani e perfino atei.
L’indomani mattina, domenica, giornata conclusiva della sua tre giorni nell’Isola (durante la quale fece tappa anche a Oristano, Nuoro e Sassari) , ci fu la tanto attesa celebrazione eucaristica sul sagrato della Basilica di Nostra Signora di Bonaria, alla quale parteciparono circa 130.000 persone venute da tutta la Sardegna.
Quel giorno venne anche celebrata la Giornata Missionaria Mondiale. «Da tanto tempo, nel quadro dei miei viaggi pastorali in Italia – disse in quell’occasione – desideravo venire in Sardegna, e specialmente a Cagliari, in questa città che per il numero dei suoi abitanti, per la sua antichissima storia, per il suo mare, il suo porto, ma specialmente per la sua secolare tradizione cristiana è come una splendida perla incastonata nella vostra bellissima Isola». Parole che, come quelle rivolte ai giovani, alle autorità e alle tante realtà locali, sono rimaste nel cuore dei Sardi.
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