Detti e modi di dire sardi: “Pagu genti, bona festa”.
Sicuramente un’espressione consolatoria, ironica, in parte sarcastica. Perché i sardi si rivedono spesso nella frase “pagu genti, bona festa”?
In Sardegna esiste un detto tanto breve quanto emblematico: “Pagu genti, bona festa”. Lo si sente spesso nei paesi, tra una chiacchiera al bar e un commento a una sagra con poca affluenza, pronunciato con quel sorriso sornione tipicamente sardo, che mescola disincanto, umorismo e un pizzico di malinconia. Letteralmente significa “poca gente, bella festa”, e se lo si prende alla lettera può sembrare quasi un invito alla spensieratezza: meno ressa, più tranquillità, più vino per tutti, più spazio per ballare. Ma chi conosce davvero l’animo isolano sa che dietro queste tre parole si nasconde molto di più. È una frase che contiene una filosofia intera, un modo tutto sardo di prendere la vita: quando le cose non vanno esattamente come sperato, meglio riderci su e trasformare la delusione in occasione. Quando a una festa ci si aspetta la folla e invece arrivano in quattro gatti, il sardo non si scoraggia, anzi: rilancia, ironizza, si consola con un bicchiere di cannonau e la butta sul “meglio pochi ma buoni”. E in fondo, è una strategia di sopravvivenza emotiva. Si tratta anche di un riflesso della fierezza sarda, quella che non ama mostrare debolezze e che, anche di fronte a un fallimento, mantiene la testa alta e lo spirito allegro. Così “pagu genti, bona festa” diventa un piccolo mantra, un modo elegante per dire: non importa quanti siamo, l’importante è che ci siamo, e che ce la godiamo lo stesso. È ironia che diventa scudo, sarcasmo che si fa compagnia, ed è anche, diciamolo, un modo per far buon viso a cattivo gioco senza prendersi troppo sul serio. Un capolavoro di autoironia che solo i sardi sanno sfoderare con quella naturalezza disarmante che li contraddistingue.
L’espressione “pagu genti, bona festa” racchiude un significato profondo e complesso, che va oltre la semplice traduzione letterale di “poca gente, bella festa”. Questa frase, sicuramente intrisa di un certo tono consolatorio e ironico, riflette un aspetto caratteristico della cultura sarda, dove la qualità del tempo trascorso insieme, piuttosto che la quantità di persone presenti, viene valorizzata. In un’isola dove le tradizioni sono vive e fortemente sentite, i sardi si ritrovano spesso a identificarsi con questo motto, riconoscendo che anche in una festa con pochi partecipanti si può vivere un’esperienza intensa e memorabile. La bellezza di una festa non risiede infatti nel numero di invitati, ma nella capacità di creare legami, di condividere momenti di gioia e di celebrare insieme le proprie radici. Così, mentre gli eventi affollati possono apparire allettanti, è nei piccoli raduni, nelle riunioni intime, che si manifestano l’autenticità e la calda ospitalità sarda, riscoprendo il valore delle relazioni umane e l’importanza di un’atmosfera genuina. In questo contesto, l’ironia e il sarcasmo della frase prendono vita, suggerendo che, anche con pochi amici attorno, una festa può diventare un’occasione straordinaria per festeggiare la vita e la comunità, dimostrando che ciò che conta davvero è l’intensità delle emozioni condivise piuttosto che la folla.
Forse perché siamo pochi, probabilmente perché spesso siamo stati dominati bistrattati, e soprattutto perché abbiamo un carattere deciso e fiero: eccoci qui a parlare di uno di quei detti sardi che ti fanno sentire subito a casa. Come se fossi seduto in una piazzetta di un paesino dell’entroterra, con un bicchiere di vino in mano e un gruppo di anziani che giocano a carte nelle vicinanze. Questo piccolo gioiello di saggezza popolare è come un abbraccio caloroso della nonna che ti dice “Non preoccuparti, andrà tutto bene” quando ti lamenti che alla tua festa di compleanno sono venuti solo tre gatti (e forse nemmeno quelli).
Ah
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