“Il muto di Gallura”: il linguaggio del Western racconta l’anima più profonda (e oscura) della Sardegna

Erano anni che la Sardegna non veniva così ben rappresentata sul grande schermo, almeno da "L'uomo che comprò la Luna" di Paolo Zucca.
Ci sono i cavalli, i fucili, i cappelli a falda larga che riparano il viso dal vento e dal sole. C’è anche il fango che sporca gli stivali e c’è una legge spietata e senza sconti che regola l’Universo: quella dell’onore.
Nel film “Il Muto di Gallura”, prodotto da Fandango e Rai Cinema e diretto dal regista Matteo Fresi, uscito nelle sale cinematografiche giovedì 24 marzo, il linguaggio del cinema Western racconta l’anima più profonda (e oscura) dell’Isola.
In questo film, tratto dal romanzo omonimo del 1884 scritto da Enrico Costa e che mira chiaramente a diventare (a pieno titolo) una pietra miliare del cinema sardo, i “cow boy” sono i pastori galluresi. I loro usi e costumi (questi forse un po’ troppo colorati rispetto alla tradizione) sono descritti minuziosamente.
La scena iniziale racconta l’antefatto della faida consumatasi ad Aggius tra gli anni ’40 e ’50 dell’800 in una Sardegna pre-italiana, di fatto colonia della Corona Savoia. Il capo famiglia dei Vasa, Pietro, chiede al capo famiglia dei Mamia la mano della figlia. Antoni Mamia acconsente, ma a patto che Pietro sani i dissapori del passato con un suo parente, Salvatore Pileri. Questo non avverrà e così inizia una delle faide più sanguinose che l’Isola ricordi. Morirono in tutto 70 persone. Il killer più temuto fu una figura semi leggendaria da cui prendono il nome film e romanzo: “Il Muto di Gallura”, Sebastiano Tansu, interpretato dal bravissimo Andrea Arcangeli (già Roberto Baggio nel film Netflix “Divin Codino”). Bastianu, come lo avrebbero definito le donne di allora, è un “diavolo” incarnatosi in un ragazzo sordo muto emarginato e disprezzato fin da bambino. Ben presto si scopre però che il giovano, con il fucile in mano, non ha rivali. Un cecchino infallibile, dal cuore triste e ferito, che diventa un affascinante bandito silenzioso agli occhi della giovane pastore Gavina. La ragazza cercherà nel corso della storia di redimerlo, comprenderlo, accettarne la natura e amarlo.
Il film scorre in modo naturale e avvincente mescolando il fascino controverso della “balentìa” sarda con quello intramontabile dei fuorilegge del west. Non c’è biasimo e non c’è elogio per il codice d’onore che nel bene e nel male – come spiegato alla perfezione dal prete forestiero nel film – regola il vivere comune nell’Isola da secoli. La mancanza di un giudizio morale aiuta ad apprezzare la narrazione asciutta e onesta della storia. Non ci sono né vinti né vincitori e non ci sono né buoni né cattivi: tutto avviene secondo il lento incedere della legge degli uomini e delle donne di questa terra. Ma Bastianu, vero protagonista di questa storia, è la rappresentazione metaforica dello straniero, del diverso, dell’incompreso. Dopo essere stato disprezzato, sopportato, compatito e messo all’angolo fino a età adulta, troverà il suo riscatto nella vendetta e nella violenza. Il suo sviluppo è essenzialmente e squisitamente tragico: sarà lui – e non le persone da lui uccise – la vera vittima della storia.
Erano anni che la Sardegna non veniva così ben rappresentata sul grande schermo, almeno da “L’uomo che comprò la Luna” di Paolo Zucca. Il principale merito del regista Matteo Fresi è quello di essere riuscito, con un linguaggio cinematografico nuovo ma che si rifà a codici molto ben conosciuti dal grande pubblico, a portare fuori dai consueti confini la narrazione della storia e della cultura della Sardegna. Il 31 marzo il film uscirà anche nel resto d’Italia. La lingua gallurese, grande protagonista della pellicola insieme ai boschi e ai graniti del massiccio del Limbara, non sarà certo un ostacolo perché anche il pubblico “continentale” possa apprezzare una storia così avvincente, senza tempo e senza confini.

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