Leggende cagliaritane. Perda Liàda, quel sasso contro i saraceni e il mito di un lamento d’amore
Al largo della cagliaritana Torre del Prezzemolo si erge l'isolotto de Sa Perda Liàda. Un gigantesco scoglio, nelle acque di Sant'Elia, che nasconde un affascinante leggenda e una storia di un amore barbaramente ucciso.
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Della cosiddetta “spiaggiola” di Sant’Elia, accanto al noto ristorante “Lo Scoglio” e ancora frequentata nelle domeniche estive da molti abitanti del rione, si è parlato abbastanza. Quell’arenile di sabbia e ciottoli, accessibile da una scalinata un po’ nascosta fra le erbacce, raggiungibile dalla strada serrata ai piedi della Torre del Prezzemolo.
Ed è proprio al largo di questa che si erge l’isolotto de Sa Perda Liàda, anche detto Scoglio di Sant’Elia. Forma sub-rotonda, rada vegetazione sulla sua superficie, questa grande “pietra” è teatro di un’affascinante leggenda cagliaritana.
Si racconta infatti che ai tempi delle invasioni saracene un frate, che abitava nel cenobio edificato nella parte alta del promontorio, avvistando l’imbarcazione nemica le lanciò contro una perla proveniente dalla mitra di San Giovenale. Ecco allora che, nel rotolare per il pendio, la perla a poco a poco diventò sempre più grossa e, piombando sull’imbarcazione, la distrusse. È la leggenda della Perda Liàda, ovvero la pietra lanciata.
Come riportato da Gian Paolo Caredda, però, pare che il nome dell’isolotto sia anche quello di Galata, nascondendo così un’altra leggenda. I pescatori del passato infatti sostenevano che, durante la notte, in quel tratto di mare si sentiva un canto melodioso. Questo era il lamento della mitica Galatea, una delle Nereidi che abitavano il Mediterraneo, di cui si invaghì il terribile figlio di Poseidone, Polifemo. A quest’ultimo, tuttavia, la fanciulla preferì il giovane Aci. Il ciclope allora, preso da accesa ira, lo schiacciò con un masso.
Riferimenti Bibliografici: Gianpaolo Caredda, Le tradizioni popolari della Sardegna, Editrice Archivio Fotografico, Nuoro.
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Come si chiama il garofano in sardo campidanese?

Anche un semplice fiore, come il garofano, diventa in questo contesto un piccolo scrigno di storia e identità.
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Come si chiama il garofano in sardo campidanese?
La Sardegna è una terra che parla con mille voci, un mosaico linguistico fatto di sfumature, inflessioni e parole che cambiano da una vallata all’altra, custodendo nei suoni e nei significati la memoria di un’isola antica e stratificata.
Anche un semplice fiore, come il garofano, diventa in questo contesto un piccolo scrigno di storia e identità.
Nel sardo campidanese, infatti, il garofano si chiama gravellu o, a seconda delle zone, grabellu, una parola dal suono forte e armonioso che racchiude secoli di influenze linguistiche e culturali. Il termine deriva dallo spagnolo clavel, chiaro retaggio del lungo periodo di dominazione iberica che ha lasciato una traccia profonda nel lessico dell’isola, soprattutto nelle aree meridionali. Ma come spesso accade in Sardegna, la ricchezza linguistica si manifesta anche nelle varianti: grabéllu, cravellu, gravedhu, gravégliu e graverzu sono solo alcune delle forme con cui, nei diversi centri e dialetti locali, viene indicato lo stesso fiore. Una pluralità di suoni che racconta la vitalità di una lingua viva, capace di adattarsi e trasformarsi senza perdere la propria identità. In sardo, la parola gravellu non si riferisce soltanto al garofano comune, ma anche al garofanino selvatico che cresce spontaneo nei campi e lungo i pendii dell’interno, simbolo di una natura semplice e resistente come il carattere del popolo sardo.
Il termine, inoltre, ha ispirato la denominazione di un tipo di pasta fresca tipica, is gravellus, una creazione artigianale dalla forma floreale che richiama proprio i petali del garofano selvatico. Questa curiosa connessione tra linguaggio, natura e gastronomia dimostra quanto in Sardegna le parole non siano mai isolate, ma intrecciate profondamente con la vita quotidiana, le tradizioni e l’ambiente. Il gravellu è quindi molto più di un nome: è un esempio di come la lingua sarda, nella sua varietà campidanese e nelle sue numerose varianti locali, riesca a conservare la memoria di epoche e dominazioni, fondendo influenze esterne e radici autoctone in un’unica armonia linguistica. Ogni volta che un sardo pronuncia quella parola, riecheggia una storia fatta di contaminazioni culturali, ma anche di resistenza e orgoglio, perché dietro il suono di gravellu si cela il profumo antico di una terra che ha sempre saputo trasformare le parole in identità.
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