Al via alla Fiera di Cagliari l’evento “Vivi Natale”. Nel giorno dell’Immacolata i padiglioni della nota struttura cagliaritana, addobbati a festa, si sono trasformate nel villaggio di Santa Claus. E la gioia è per tutti, grandi e piccini, che quest’anno hanno rivissuto momenti di divertimento che, con lo scoppiare della pandemia, sembravano essere dimenticati.

In giro, qua e là, maschere e superanimatori, ad animare la giornata tra giochi, balli e musica. Mascherine al viso e rispetto delle norme di distanziamento, sebbene la gente sia davvero tanta ed entusiasta.
Ma gli occhi dei bambini sono tutti per lui. Babbo Natale quasi si fa attendere, ma il vecchino vestito di rosso siede sul trono e i bimbi di ogni dove a fargli festa. Barba bianca e occhiali, gli stivali sono quelli classici, nei ricordi di tutti noi.

Solo la mascherina trasparente, rigorosamente indossata per ricevere i piccoli, è figlia dei tempi moderni. Letterina alla mano e nel cuore il sogno di un gioco nuovo, la fila per lui è tanta ed è già Natale 2021, il secondo in era Covid, ma sembra di essere tornati indietro nel tempo. L’organizzazione, addirittura, ha allungato l’orario di un’ora, dalle 12 originarie alle 13.

Ma la festa è ovunque per i padiglioni della Fiera di Cagliari, tra pirati a bordo del galeone – messo a disposizione dal comando dell’esercito della Regione Sardegna – e il meglio della gastronomia isolana.
“Vivi Natale” in programma sino al 12 dicembre. Poi, dal 16 al 19.

In Sardegna, il pane non è mai stato solo cibo. È sempre stato simbolo, rito, ingegno. Tra i tanti pani che affollano la straordinaria tradizione sarda – dal carasau al civraxiu, dal frattau al pistoccu – ce n’è uno che affonda le radici in un tempo così lontano da sembrare mitico: Su Pan’Ispeli, il pane di ghianda. Citato persino da Plinio il Vecchio, scrittore dell’antica Roma, nella sua enciclopedia “Naturalis Historia”, viene descritto come “un pane impastato con argilla del quale si nutrono i Sardi”.

Questo alimento antico risale al Neolitico e nasce in un contesto di fame e sopravvivenza. Quando il grano scarseggiava, le donne sarde guardavano alle querce, generose di ghiande mature. La raccolta era attenta: si sceglievano solo quelle ben sviluppate, simbolo di forza e nutrimento. Ma non bastava raccoglierle: le ghiande andavano sbucciate, lessate e poi depurate con un rituale tanto antico quanto affascinante.

L’acqua della bollitura veniva filtrata attraverso uno strato composto da argilla, erbe aromatiche e cenere. Questo non solo serviva a eliminare le sostanze amare e tossiche, ma aveva anche un significato profondamente spirituale. In epoca primitiva, in Sardegna era fortissimo il culto della Dea Madre, divinità della terra e della vita. L’argilla, considerata il suo sangue, aveva un valore sacro: cibarsi di quel pane significava ricevere protezione ultraterrena e conquistarsi un posto nell’aldilà.

Una volta cotte e purificate, le ghiande venivano ridotte in una sorta di “polenta” densa, modellata in pezzi, poi asciugata lentamente al sole o nel forno. Il risultato era un pane dal colore scuro, quasi nero cenere, con un sapore intenso e inaspettatamente gradevole. Nonostante la sua origine umile, Su Pan’Ispeli era tanto apprezzato che continuò a essere preparato e consumato in Ogliastra fino agli anni ’50 del Novecento.

Oggi, il pane di ghianda è quasi scomparso, ma resta uno dei simboli più potenti dell’ingegno e della spiritualità antica della Sardegna: un cibo che nutriva il corpo e, secondo chi lo preparava, anche l’anima.