Si sono svolti ieri nella Chiesa del Buon Pastore a Cagliari, davanti a centinaia di persone, i funerali di Massimo Melis, il ragazzo di 29 anni morto nella notte tra venerdì e sabato in viale Marconi a Cagliari, dopo che un’auto lo ha travolto mentre viaggiava in sella alla sua moto, una Honda 650.

L’automobilista, ha poi omesso di soccorrerlo ed ha abbandonato il luogo dell’incidente. Poche ore dopo un 61enne di Capoterra si è presentato al Comando provinciale dei Carabinieri di via Nuoro riferendo ai militari di essere l’uomo alla guida del Nissan Qashqai coinvolto nel tragico incidente.

Le indagini da parte dei Carabinieri, però, non si sono ancora chiuse. I Carabinieri e la Polizia Locale stanno verificando il racconto dell’uomo e quello dei testimoni presenti al momento dell’incidente. Le due versioni, a quanto si apprende, non sarebbero perfettamente combacianti.

Da qui l’accorato appello della fidanzata di Massimo Melis, Sara Pischedda, 28enne di Cagliari, che si rivolge proprio ai testimoni: «Vorrei avere il contatto dei testimoni che c’erano nell’incidente tra moto e macchina in Viale Marconi il 2 novembre alle 1.30. Mi aiutate a condividere? Grazie a chi mi aiuterà».

In Sardegna, il pane non è mai stato solo cibo. È sempre stato simbolo, rito, ingegno. Tra i tanti pani che affollano la straordinaria tradizione sarda – dal carasau al civraxiu, dal frattau al pistoccu – ce n’è uno che affonda le radici in un tempo così lontano da sembrare mitico: Su Pan’Ispeli, il pane di ghianda. Citato persino da Plinio il Vecchio, scrittore dell’antica Roma, nella sua enciclopedia “Naturalis Historia”, viene descritto come “un pane impastato con argilla del quale si nutrono i Sardi”.

Questo alimento antico risale al Neolitico e nasce in un contesto di fame e sopravvivenza. Quando il grano scarseggiava, le donne sarde guardavano alle querce, generose di ghiande mature. La raccolta era attenta: si sceglievano solo quelle ben sviluppate, simbolo di forza e nutrimento. Ma non bastava raccoglierle: le ghiande andavano sbucciate, lessate e poi depurate con un rituale tanto antico quanto affascinante.

L’acqua della bollitura veniva filtrata attraverso uno strato composto da argilla, erbe aromatiche e cenere. Questo non solo serviva a eliminare le sostanze amare e tossiche, ma aveva anche un significato profondamente spirituale. In epoca primitiva, in Sardegna era fortissimo il culto della Dea Madre, divinità della terra e della vita. L’argilla, considerata il suo sangue, aveva un valore sacro: cibarsi di quel pane significava ricevere protezione ultraterrena e conquistarsi un posto nell’aldilà.

Una volta cotte e purificate, le ghiande venivano ridotte in una sorta di “polenta” densa, modellata in pezzi, poi asciugata lentamente al sole o nel forno. Il risultato era un pane dal colore scuro, quasi nero cenere, con un sapore intenso e inaspettatamente gradevole. Nonostante la sua origine umile, Su Pan’Ispeli era tanto apprezzato che continuò a essere preparato e consumato in Ogliastra fino agli anni ’50 del Novecento.

Oggi, il pane di ghianda è quasi scomparso, ma resta uno dei simboli più potenti dell’ingegno e della spiritualità antica della Sardegna: un cibo che nutriva il corpo e, secondo chi lo preparava, anche l’anima.