Viaggio nel mondo dei call center cagliaritani, tra sfruttamento e rassegnazione

È un settore in cui lavorano migliaia di persone anche a Cagliari e provincia. Alcune dipendenti (e un'ex dipendente) raccontano le tante ombre (e qualche luce) di questo mondo.
Marta, cagliaritana doc, mi porta a vedere il posto dove lavora. Siamo a Cagliari, vicino a una famosissima discoteca. Dopo le scale entriamo in un sotterraneo; apre la porta e veniamo immerse dal un fragoroso vocìo, incessante, che ti penetra nelle orecchie e rimane per un bel po’ anche quando poi esci fuori. Sono le voci dei dipendenti di uno dei call center più conosciuti in città, al cui interno si prova a vendere via telefono diversi prodotti, dall’energia elettrica alla telefonia, fino agli integratori e ai pacchetti per i viaggi. Ogni tre minuti, si sente: “Dai, muovetevi, fate il contratto!”: sono i team leader (i “supervisori” del lavoro dei telefonisti) che gridano per “spronarli” a vendere quanto più possibile. «È così tutti i giorni» dice Marta, che ha 25 anni e lavora lì da quattro mesi. «Premesso che anche loro sono lavoratori e obbediscono agli ordini dei capi, ma è una continua pressione su di noi, che mettiamo del nostro meglio per poter riuscire a vendere e guadagnare di più. Dovrebbero capire che non possiamo costringere i clienti, che spesso sono legittimamente diffidenti».
Vendere per guadagnare, appunto. Perché i contratti in questo call center sono sì, diversi a seconda della mansione, ma la paga è sempre la stessa: «Il mio stipendio fisso non supera i 350 euro mensili; ho un contratto a tempo determinato della durata di cinque mesi, sulla carta c’è scritto che devo fare 4 ore, in realtà spesso arrivo a farne anche 6, senza che mi venga pagato lo straordinario. Ma non posso andarmene perché ho un affitto da pagare e non trovo altro. L’ambiente di lavoro è pessimo». Mi dice che almeno l’80% di chi ci lavora ha questo trattamento economico, ma sono in tanti anche con contratto a progetto. Per tutti, poi, ci sono le provvigioni: dunque se si vuole arrotondare e guadagnare di più, bisogna vendere il prodotto, a costo di essere assillanti con il cliente. «Sapessi quanti insulti ci prendiamo dai clienti. Da un lato hanno ragione, dall’altro noi ci sentiamo umiliati perché non vorremmo essere petulanti ma non abbiamo scelta». Marta lavora in questo settore da ormai quattro anni.
Francesca C. ha 31 anni e un passato da segretaria in uno studio legale dal quale è andata via dopo una promessa di stabilità contrattuale disattesa. Ha cercato tra i vari annunci di lavoro, ma ha trovato solo call center; in tre anni ha lavorato tra Cagliari, Selargius e Quartu, e ha venduto svariati tipi di prodotti. Solo in uno di questi è stata trattata bene (sia a livello economico sia a livello personale), per il resto è stato – come afferma lei stessa – un incubo: « In quello di Selargius, se in un giorno non vendevo nulla, mi facevano passare per un’incapace. Dovevo cercare di convincere anche le persone anziane, usando persino escamotage e, durante la registrazione vocale del contratto, parlare velocemente anche se loro non capivano e tuttavia rispondevano comunque sì a ogni domanda. Questa era la parte più odiosa del lavoro, a livello etico e morale. Ecco perché sono scappata, nonostante mi pagassero discretamente e puntualmente. Lo sfruttamento vero e proprio l’ho conosciuto in un call center di via Venturi, che ormai ha chiuso da molti anni (fortunatamente)», rimarca. «Fissavo appuntamenti, lavoravo quattro ore, senza contratto, con un fisso di 200 euro (che spesso mi veniva dato anche in ritardo) con la promessa di una percentuale per ogni appuntamento chiuso dall’agente, ma ovviamente l’agente non riusciva a vendere ogni volta, dunque di percentuali ne ho visto pochissime e molto basse. Me ne sono andata dopo tre mesi. Il proprietario, tra l’altro, è una persona conosciuta anche nel mondo della movida cagliaritana. Non ho denunciato semplicemente per rassegnazione». Ora lavora come baby sitter e giura che non tornerà mai a indossare le cuffie e alzare un telefono per chiamare le persone.
Leggermente diversa, invece, l’esperienza di Carlotta (nome di fantasia, ci tiene a rimanere anonima). Anche lei come Marta e Francesca nel settore outbound (chiamava lei i clienti). Selargina, trentasette anni, quindici dei quali passati nei call center, di cui 11 in Friuli e gli ultimi quattro a Cagliari. Qui prendeva 400 euro mensili per 4 ore giornaliere, cinque giorni a settimana anche se a volte lavorava anche il sabato per recuperare i festivi, con un contratto di collaborazione. Le ore in più non venivano pagate, «ci dicevano che erano a nostro vantaggio per poter raggiungere le “gare”. Capitava di fare straordinari ma di non prendere la gara. Lo stipendio arrivava puntualmente, però», tiene a precisare, «e l’ambiente era molto familiare, avevo anche confidenza con la responsabile, la quale mi aveva fatto svariate promesse che poi non ha mantenuto. Di qui, la mia decisione di andarmene, a marzo di quest’anno. Mai più in un call center». Poi la scoperta amara: «Di quei due anni lavorati lì, mi sono stati versati solo tre mesi di contributi. Per fortuna in famiglia non abbiamo problemi economici e io posso concedermi il “lusso” di godermi un po’ di relax e stare con i miei due bambini. Ma non tutti hanno la mia stessa fortuna e sono costretti a fare quel genere di lavoro».
Tra le tante esperienze negative, ovviamente ce ne sono anche di positive. Silvia (altro nome di fantasia) ha 39 anni, è di Decimomannu e ha iniziato nei call center nel 2008, dovunque è andata ha sempre avuto il contratto collettivo nazionale, seppur a tempo determinato, e la puntualità nell’erogazione dello stipendio. Per cinque anni ha lavorato per una ditta che vendeva arredamento: qui per tre ore giornaliere guadagnava 590 euro mensili, con contratto a tempo determinato, ma poi l’azienda ha ridotto il personale, mantenendo solo quelli con l’indeterminato. Successivamente è entrata a far parte del call center in cui ha lavorato anche Carlotta. Anche lei conferma l’ambiente familiare che si era creato, fino a quando non le è stato promesso l’indeterminato: promessa infranta ma, invece, le è stato offerto un contratto a progetto. «Mi sono sentita presa in giro e me ne sono andata». Anche lei, dopo due anni di contributi, se ne è ritrovata solo 3 mesi. Per fortuna ora ha trovato un altro lavoro che le dà soddisfazioni sia a livello personale che economico. Di storie come quelle di Marta, Francesca, Silvia e Carlotta ce ne sono a centinaia, e non solo in Sardegna. Oggi call center viene equiparato spesso a sfruttamento. La questione è stata sollevata molto recentemente dalla deputata Pd e sindaca di Sadali Romina Mura, che in un video sul suo profilo ha denunciato il tutto invitando chi sa, a fare i nomi dei proprietari. Sono tantissime anche le persone un po’ più avanti con l’età che per arrotondare con la pensione, indossano cuffie e mettono mano al telefono per poche centinaia di euro e tante ore di lavoro.

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