(FOTO) “Vota per me”, la campagna di guerrilla art dell’artista sardo Gianluca Vassallo in difesa dei migranti
Vota per me CagliariSono già decine i manifesti attaccati negli spazi elettorali di diverse città italiane recanti la scritta “Vota per me”. A chiedere simbolicamente questo voto sono i volti dei migranti che vivono in Italia, immortalati dagli obiettivi dell’artista sardo di San
Sono già decine i manifesti attaccati negli spazi elettorali di diverse città italiane recanti la scritta “Vota per me”. A chiedere simbolicamente questo voto sono i volti dei migranti che vivono in Italia, immortalati dagli obiettivi dell’artista sardo di San Teodoro Gianluca Vassallo.
I manifesti hanno già fatto la loro comparsa a Nuoro, Trieste e Cagliari. L’opera è stata annunciata da Gianluca Vassallo con un comunicato stampa.
Ecco le foto dei manifesti affissi a Cagliari:
«Nel corso di questa settimana, gradualmente, in tutto il paese – si legge nel comunicato – vedrete comparire negli spazi deputati alla campagna elettorale, una serie di manifesti rappresentanti il volto e la storia di dieci migranti sui quali campeggia la scritta vota per me. Si tratta di un’operazione di guerrilla art che vuole rispondere alla violenza verso i migranti che già prima dei fatti di Macerata ha caratterizzato la campagna elettorale. Una campagna in cui tutti i partiti hanno strumentalizzato in una direzione o nell’altra il ruolo degli extracomunitari, scegliendo la semplificazione come caratteristica fondamentale del loro linguaggio».
«Vota per me è un progetto di Guerrilla Art – spiega Vassallo – che, attraverso le facce e le storie dei migranti, cerca di riportare al centro del dibattito pubblico la verità delle vite, la dignità degli individui, il senso profondo della convivenza, con l’intenzione dichiarata di spostare l’asse dialettico verso la complessità dei fenomeni migratori, ovvero la sede culturale in cui il discorso politico dovrebbe svolgersi. Il progetto cerca questo risultato attraverso una pratica propria della politica, la propaganda elettorale, e lo fa per mezzo degli spazi per la pubblica affissione, disertati nella campagna elettorale in corso dai partiti di ogni orientamento, spazi che diventano, così, metafore. Metafora del lavoro di raccolta nei campi, del lavoro operaio, delle minuterie vendute agli angoli, dell’assistenza agli anziani, metafora della fame di futuro, della capacità di rinuncia per un fine più altro, metafora della memoria dell’oppressione individuale e collettiva, del desiderio di comunità, metafora, insomma, di tutti quei luoghi di produttivi e di senso che l’Italia, mia e vostra, la stessa che urla alla crisi economica e morale, ha deciso di disertare e ai quali, i nuovi arrivati, hanno garantito continuità, spesso a condizioni salariali e umane che nessuno di noi accetterebbe per se stesso. Un’Italia, la vostra e la mia, che non solo ha dimenticato la sua storia di migrazione, calpesta la costituzione, si nega la gioia della pluralità culturale ma che, assai più colpevolmente, pur schiacciando gli ultimi pretende anche di averne paura».
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Nell’800 a Montevecchio le prostitute arrivavano da Parigi. Un tragico fatto le portò ad andarsene
Dopo la metà dell'800 la miniera di Montevecchio contava più di mille operai ed era la più grande del Regno d'Italia. Il denaro, tra gli impiegati non mancava, tanto che un gruppo di prostitute francesi, vi si trasferì per lavorare, ma un triste fatto di cronaca, le costrinse a rimpatriare.
In un articolo della storica e antropologa Grazia Villani intitolato “Calamine e sollazzi”, si legge che intorno al 1860, un gruppo di prostitute provenienti dalla Francia si stabilì a Montevecchio, dove si costituì una vera e propria casa di tolleranza. Le prostitute ufficialmente figuravano come delle lavoratrici e la Direzione che era al corrente della vera attività svolta dalle donne, la condannava formalmente. In realtà però tollerava la presenza di queste prostitute che probabilmente contribuivano a tenere calmi gli animi degli uomini impiegati nella miniera.
Non bisogna dimenticare infatti che a metà dell’800 la miniera di Montevecchio da cui si estraevano i minerali per la produzione del piombo, contava mille e cento operai ed era la più grande del Regno d’Italia. La vita della miniera si svolgeva nella più rigida divisione per classi sociali e si cercava in tutti modi di evitare contatti, anche nei momenti di svago, tra gli operai e le loro famiglie praticamente tutti sardi e gli impiegati, i dirigenti, gli ingegneri e gli altri tecnici, per lo più giovani e “forestieri”. Gli impiegati che lavoravano a Montevecchio per periodi limitati, difficilmente si facevano accompagnare dalla famiglia.
Probabilmente la presenza delle prostitute serviva ad evitare che qualche impiegato potesse “insediare” le donne degli operai suscitando tensioni sociali. Ma nel 1869, accadde un terribile fatto di cronaca: vicino a uno dei capannoni che ospitavano i dormitori dei lavoratori fu trovato il corpicino di un neonato, nato vivo e poi strangolato. La notizia si diffuse e ne nacque uno scandalo che spinse la Direzione a decidere di mandare via le prostitute e chiudere la casa di tolleranza semiclandestina. Iride Peis, autrice di diversi testi su Montevecchio e sulle sue donne, nel suo libro “Voci di donna nella collina di Genna Serapis” si ispira all’articolo di Grazia Villani per raccontare questa circostanza in maniera romanzata.
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