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Nata nel cuore della Barbagia, in una casetta di Lanusei nel 1902, Rosa Demuro sembrava destinata a una vita silenziosa e remota, come tante sue coetanee nate nella Sardegna profonda del primo Novecento. E invece il suo destino fu tutt’altro che ordinario. A vent’anni, spinse la porta di un convento per non uscirne più. Ma quella porta non era un limite: era solo l’inizio. Con il nome di Suor Giuseppina, la giovane Rosa divenne una forza silenziosa ma inarrestabile, una donna capace di scrivere pagine di storia nel buio delle celle del carcere Le Nuove di Torino.
Trasferita in Piemonte per la sua attitudine energica e autorevole, Suor Giuseppina trovò nella prigione un campo di battaglia morale. Per quarant’anni condivise la sua vita con detenute e detenuti, non come custode, ma come sorella, consigliera, madre. In un ambiente duro, spesso disumano, la sua presenza era quella di un balsamo silenzioso.
Ma fu durante l’occupazione nazista, tra il 1943 e il 1945, che la sua umanità si trasformò in eroismo. Le Nuove divennero un luogo di tortura e morte, con il famigerato Primo Braccio riservato ai prigionieri politici e agli ebrei. In quel clima di terrore, Suor Giuseppina si trasformò in una staffetta umana del coraggio, aiutando decine di donne, uomini e bambini a fuggire, nascondersi, sopravvivere.
Le storie che la riguardano sembrano uscite da un film, eppure sono tutte vere. Come quella della giovane ebrea salvata da una morte certa grazie a un’intossicazione indotta: la suora fece bere alla prigioniera un decotto di catrame ricavato dai mozziconi raccolti nel cortile, simulando una grave malattia che convinse i medici nazisti a farla uscire per curarla. O del neonato nascosto nel cesto della biancheria sporca, portato fuori dal carcere senza che nessuno se ne accorgesse. Ogni giorno era un rischio, ogni scelta una sfida al potere nazista. Ma Suor Giuseppina non si tirò mai indietro.
Nemmeno nei giorni cruciali della Liberazione: il 26 aprile 1945, stanca di aspettare ordini, salì su una camionetta e attraversò una Torino ancora in fiamme per raggiungere il Prefetto. Gli chiese – e ottenne – la liberazione dei prigionieri politici. Poi tornò indietro, sempre sotto il fuoco incrociato, per portare la notizia ai detenuti. Una suora con la fermezza di un generale e la tenerezza di una madre.
Finita la guerra, non cercò né gloria né gratitudine. Restò dove era sempre stata: tra le sbarre, a fianco degli ultimi. E fu per le donne, soprattutto, che volle fare di più: negli anni ’50 fondò “La Casa del Cuore”, una delle prime strutture protette in Italia per accogliere le ex detenute, donne spesso sole, dimenticate, senza una casa né un futuro.
Nel 1965, morì nel carcere che era diventato la sua casa. Ma il suo ricordo non è stato sepolto con lei. Anzi, torna a vivere oggi con sempre più forza: l’Unione dei Comuni d’Ogliastra ha intitolato a lei il proprio centro antiviolenza, e il Centro Femmilie di Lanusei le ha dedicato la Giornata dell’8 marzo. Le Nuove, oggi trasformato in museo, conserva le sue tracce, le sue lettere, le sue azioni.
E ora, finalmente, il suo nome è stato proposto per diventare Giusta fra le Nazioni, un riconoscimento che lo Stato d’Israele riserva a chi ha salvato anche una sola vita ebrea durante la Shoah.
Suor Giuseppina è stata molto più di una suora: è stata una partigiana senza armi, un’eroina senza medaglie, una donna di Dio che ha scelto di servire l’umanità intera. In un secolo che ha visto tanto orrore, ha lasciato una traccia di luce, coraggio e misericordia che merita di essere conosciuta da tutti.
Perché ci sono vite che andrebbero studiate a scuola. E quella di Rosa Demuro, diventata Suor Giuseppina, è una di queste.