“L’Accabadora” arriva il 20 aprile nelle sale cinematografiche, intervista al regista Enrico Pau
Dopo “Pesi Leggeri” e “Jimmy della Collina”, arriva nelle sale il terzo lungometraggio di Enrico Pau “L’Accabadora”, dal 20 Aprile al Cinema Odissea a Cagliari. La figura dell’Accabadora è avvolta da un’aura leggendaria e affascinante, la sua esistenza spesso viene
Dopo “Pesi Leggeri” e “Jimmy della Collina”, arriva nelle sale il terzo lungometraggio di Enrico Pau “L’Accabadora”, dal 20 Aprile al Cinema Odissea a Cagliari.
La figura dell’Accabadora è avvolta da un’aura leggendaria e affascinante, la sua esistenza spesso viene negata da studiosi e antropologi ma, per la tradizione sarda, era una donna che metteva fine alle sofferenze dei moribondi, all’interno di comunità antiche per le quali la dignità del malato aveva un importanza fondamentale. Enrico Pau gioca con questo mito, trasportandolo nella realtà dolorosa di una Cagliari devastata dai bombardamenti del 1943, e in un certo senso se ne serve per raccontare la “buona morte” tema più che attuale. Un omaggio del regista alla Sardegna ma,soprattutto, a Cagliari, la sua città.
Come nasce l’idea di raccontare questa storia?
La fonte principale è la fantasia, l’immaginazione, pensare che possa essere verosimile che sia esistita questa figura ancestrale, legata al mito, a cui veniva affidato il compito di accompagnare i malati nella conclusione della loro vita, ho voluto affrontare il tema dell’eutanasia, con elementi legati al mito di questa figura e di comunità rurali antiche che avevano rispetto per la dignità del malato.
La figura dell’Accabadora appartiene alla storia del centro-nord Sardegna, come mai la scelta del set è ricaduta su Collinas e Cagliari?
Lo sfondo è il mondo rurale sardo da una parte per cui è stata scelta Collinas, senza però mai citarla, è come un luogo fuori dallo spazio e una Cagliari sconvolta dalla guerra dall’altra, durante i bombardamenti del 1943, un omaggio alla mia città. E c’è anche un omaggio a Sant’Efisio, con la processione per cui abbiamo anche ricostruito il simulacro. Quei giorni sono vivi nelle memorie della mia famiglia, mia madre mi raccontava il dolore e la sofferenza delle persone che per fuggire dalla guerra abbandonavano le proprie case, la propria città e la propria vita, mentre alcune persone rimasero in città e tra queste c’è Annetta la nostra protagonista. Dai racconti è sempre emersa una città piena di fantasmi, le persone erano fantasmi, in Annetta c’è questa dualità fra realtà e le sue visioni, lei forse percepisce che probabilmente oltre la morte c’è qualcos’altro.
La tua Accabadora sfugge dall’immaginario che generalmente accompagna questa figura affascinante, perché questa scelta?
La nostra Accabadora è una donna sui quarant’anni, nel pieno della sua vita, mentre si associa questo ruolo sempre a un’anziana. Questo è un personaggio tragico, agito dal destino, ha ereditato dalla madre i segreti del rito, la sua vita ha sempre avuto a che fare con la morte. Noi la cogliamo in un momento di passaggio con l’arrivo di Tecla, sua nipote, e l’arrivo in città, la sua vita attraverserà un cambiamento, e fondamentale sarà anche l’incontro con Alba un’artista, ispirata alle sorelle Coroneo, queste due donne aiuteranno la protagonista ad uscire da quel ruolo che la vita le ha assegnato.
Cosa ne pensi della situazione attuale del cinema sardo?
Adesso c’è una legge, e quindi un riconoscimento, che ci sta dando la possibilità di esplorare il nostro immaginario e di raccontarci, c’è stato un lungo periodo in cui siamo stati raccontati, siamo stati rappresentati, adesso ci possiamo raccontare abbiamo l’autonomia ci stiamo raccontando. L’hanno fatto prima di noi scrittori o pittori come Grazia Deledda, Giuseppe Biasi, lasciando un’impronta, adesso possiamo farlo noi possiamo raccontare le nostre identità. Noi non siamo solo un’identità, siamo molte identità, e la nostra identità sta anche nella storia, in quello che siamo stati e nei luoghi che hanno fatto la nostra storia che finalmente possiamo raccontare.
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