Anche la Sardegna ha il suo (buonissimo) cous cous: di cosa stiamo parlando?

I suoi chicchi, piccoli globi d’ambra, non si accontentano di una semplice essiccatura: devono attraversare la fiamma viva della tostatura per ottenere il profumo intenso e i toni ambrati che la rendono inconfondibile
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C’è un piccolo tesoro tondo che rotola silenzioso da secoli sulle tavole della Sardegna, un frammento dorato di storia che sa di terra e di mare, di mani esperte e di forni a legna: si chiama fregula – o “sa fregula”, come la chiamano affettuosamente i sardi – ed è molto più di una pasta. È una narrazione in grani, un racconto antico quanto la memoria dell’Isola, che negli ultimi anni ha trovato nuova voce nelle cucine di chef stellati, food blogger e appassionati gourmet sparsi per il mondo.
La fregula ha la ruvida sincerità della semola di grano duro, l’essenzialità dell’acqua e del sale, e quella forma irregolare – fatta rigorosamente a mano, con movimenti circolari in grandi catini di coccio – che la rende unica, imperfetta, vera. I suoi chicchi, piccoli globi d’ambra, non si accontentano di una semplice essiccatura: devono attraversare la fiamma viva della tostatura per ottenere il profumo intenso e i toni ambrati che la rendono inconfondibile. Alcuni li vedono e pensano al cous cous. Non a caso, in passato, qualcuno la definiva “il cous cous sardo”. Ma qui siamo su un altro pianeta. Uno dove ogni grano ha una storia, e ogni piatto è un passaggio di testimone tra generazioni.
Il nome fregula pare derivare dal latino “ferculum”, briciola. Un termine umile, che dice tutto: piccoli frammenti, sì, ma carichi di identità. E se ne parlava già nel XIV secolo, negli statuti dei Mugnai di Tempio Pausania, dove era scritto persino in quali giorni fosse lecito prepararla – rigorosamente dal lunedì al venerdì, per rispetto del lavoro agricolo del fine settimana.
Ma è nel piatto che la fregula dà il meglio di sé. Prendete ad esempio la più classica delle versioni: fregula con arselle. Una delizia marina dove ogni granello assorbe il sapore salmastro delle “cocciulas” – le telline, come le chiamano in sardo – insieme a un soffritto leggero di aglio, prezzemolo, pomodorini e magari un tocco di peperoncino. Può essere brodosa, quasi una minestra, o asciutta, più simile a un primo piatto tradizionale. In ogni caso, è un tuffo nel Mediterraneo.
E poi c’è lei, la regina della versione più sontuosa: la fregula alla calasettana, meglio conosciuta come “Pilau”. Originariamente un piatto di recupero, fatto con il sugo avanzato dalla zuppa di pesce (“cassola”), oggi è una celebrazione in rosso del mare, traboccante di scampi, cozze, arselle, gamberi, a volte persino aragosta. Da assaggiare, rigorosamente, a Calasetta, dove questo piatto è un rito. Un tempo povero, oggi sontuoso, ma sempre legato al gesto generoso del condividere.
Insomma, la fregula è Sardegna. È un cibo che parla, che resiste, che si reinventa. Un patrimonio da gustare con rispetto e curiosità. Perché in quei piccoli granelli c’è un mondo. E quando affondano nel brodo, o si abbracciano ai frutti di mare, non stanno solo cuocendo: stanno raccontando una storia.

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