Locali vietati ai bambini, spopola ovunque la realtà “childfree”: la psicologa Ferreli ci spiega il fenomeno

Arrivata dall’America 10 anni fa, ora si è diffusa a macchia d’olio: sempre più ristoranti e alberghi non accettano l’ingresso dei bambini sotto i 12 anni. Voi cosa ne pensate? Noi abbiamo chiesto un parere alla dottoressa Ferreli, psicoterapeuta, ipnoterapista e formatrice con esperienza ventennale
«Sempre più spesso si sente parlare di ristoranti dove i bambini sotto i 12 anni non vengono ammessi, o compagnie aeree che, con un supplemento nel costo del biglietto, danno la possibilità di accedere ad un’area del velivolo dove i minori di 16 non possono stare. Si tratta di una tendenza nata negli Stati Uniti d’America circa 10 anni fa e diffusa ormai in tutto il mondo, perché ha immediatamente acchiappato il bisogno di molte persone: quello di passare del tempo senza essere disturbati dal vociare e dai movimenti dei bambini che, per loro natura, tendono ad essere più esuberanti e a non sopportare di restare fermi per molto tempo, come invece richiesto durante un volo in aereo o una cena in ristorante. Il dibattito su cosa, in questi casi, sia giusto/sbagliato/discriminatorio è tutt’ora in corso. Ciascuno di noi tende a leggere tutta la realtà come se fosse la propria realtà, questo è normale… ma non possiamo pensare che la nostra realtà sia la più giusta o, peggio, l’unica.»
Paola Ferreli, psicoterapeuta ad indirizzo umanistico integrato e ipnoterapista ericksoniana, formatrice con esperienza ventennale, si esprime su quello che è un tema molto spinoso.
«La questione in questi anni si è sviluppata analizzando solitamente tre punti di vista: quello delle famiglie che hanno i bambini, quello degli altri clienti eventualmente presenti in sala e quello del personale del ristorante (proprietario, gestore, camerieri). Quindi sorvolerò questa parte già ampiamente discussa. A parer mio il punto di vista più importante sarebbe quello dei bambini, ma non mi occuperò neanche di quello, per un semplice fatto: perché penso siano i meno preoccupati della faccenda. Perché i bambini hanno tutto più chiaro, vanno dritti all’obiettivo: se ho fame mangio, se ho sonno dormo, se ho sete bevo. Ai bambini non interessano queste “menate” da adulti…»
Sì, ma viene da chiedere: come è sopraggiunta?
«Devo confessare che la prima volta che ho sentito la notizia ho storto il naso. Non perché non comprenda il bisogno delle persone che non desiderano sentire il continuo vociare, o il pianto, o la musica che schizza a volume altissimo dalle cuffie degli adolescenti. Questo lo comprendo benissimo. Ho storto il naso perché ritengo sia sbagliata l’impostazione data per cercare la risoluzione ad un problema che è, in realtà, di convivenza sociale. Partiamo da un presupposto: sono madre di tre figlie ora grandi e, chi più chi meno, tutte quante hanno avuto l’argento vivo addosso quando erano piccine; conosco molto bene la sensazione delle orecchie ronzanti a furia di sentire le loro urla di sorpresa e di entusiasmo per qualunque cosa. Ma sono bambini, è la loro peculiarità e personalmente, nonostante l’impegno che richiede, mi affascina molto che si entusiasmino e parlino a voce alta e convoglino le loro energie nel correre, non stare fermi per molto tempo ecc. Sono così genuini! Quando qualcuno di loro viene in terapia per curare una ferita emotiva è sempre un onore per me accoglierli, imparo ogni volta tante cose! Tuttavia capisco che non tutte le persone siano affascinate dai bambini come lo sono io. E io stessa ho sempre ritagliato dei momenti in cui poter stare senza le mie figlie e senza sentirmi in colpa per questo, anzi. Si dice che genitori sereni facciano i figli sereni. Avere uno spazio di rigenerazione per i genitori è essenziale per continuare a garantire le cure e la presenza necessarie. Il fatto di amare i figli non impone al genitore di stare 24 ore al giorno con i figli. E il fatto che esistano persone che amano i bambini non significa che allora devono piacere a tutti. Ho storto il naso, dicevo prima, perché stiamo scegliendo la strada più facile per non sentire un disagio che, anziché essere risolto, diventerà cronico. E il disagio a cui mi riferisco non è certo il vociare dei bambini, quanto, piuttosto, la perdita di potere dell’adulto nei confronti del suo stare bene. Che un giorno ha buttato le responsabilità per avere una vita spensierata, pensando che le responsabilità fosse pesantezza e la spensieratezza fosse leggerezza. E invece è esattamente il contrario. Quando poi l’adulto è anche genitore, la perdita di potere fa anteporre nella pratica educativa l’affettività a discapito dell’autorevolezza.»
Ecco, come la dottoressa spiega, sembra che valga l’equazione figlio felice=genitore adeguato.
«Che di per sé non sarebbe male, se non la si basasse su un assunto errato e cioè che il figlio sia felice se viene sempre accontentato o, in alternativa, se soddisfa i bisogni edonistici dei propri genitori. Non è dovere dei figli la felicità dei genitori, né compito del genitore la felicità dei figli. Piuttosto, è compito del genitore dare ai figli valori saldi e strumenti educativi, morali e comportamentali che possano utilizzare per crescere e diventare adulti responsabili. Proprio per questo motivo il genitore ha il dovere di trasmettere al bambino le regole di una civile convivenza come il rispetto dei luoghi comuni (non permettere al bambino di giocare fra i tavoli del ristorante), della privacy altrui (non andare a disturbare le persone degli altri tavoli con giochi o con domande) rumori e silenzi (il fatto che io ami le mie figlie più della mia vita non mi dà il diritto di pensare che allora gli altri debbano essere felici di sentire i loro schiamazzi) pulizia e ordine (non lanciare il cibo per aria, lasciare i giochi buttati sul pavimento, ecc.). Sappiamo che le regole sono alla base di ogni società; non sono altro che l’insieme di norme che un gruppo sociale si dà per assicurarsi la sopravvivenza e per perseguire i fini che il gruppo stesso ritiene preminenti. Le regole esistono e le applichiamo in continuazione, anche inconsapevolmente. Allo stesso modo in ogni famiglia esistono delle regole. Il punto è che spesso non le riconosciamo. Per esempio in molte case è una regola, il più delle volte implicita, avere il televisore acceso durante il pranzo e la cena, perché fa compagnia, perché è l’unico momento in cui si può ascoltare il telegiornale o la trasmissione preferita. Tutto vero. Ma di solito è anche l’unico momento in cui parlare con i nostri figli. In cui educare i nostri figli. Quando ci si siede a tavola non si mangia e basta. Si condivide. Si apprende. Si educa. È qui che i bambini imparano a stare a tavola, ad ascoltare i loro bisogno di fame e la loro sensazione di sazietà, a condividere l’ultima fetta di pane, ad esercitare la pazienza di aspettare un po’ perché il cibo scotta o accettare la frustrazione che oggi non c’è il piatto preferito. Ma tutto questo è possibile se gli adulti che stanno in tavola con loro condividono quel momento.»
Ma quanto è corretto lasciare, appunto, i bambini in casa in occasioni simili? Vengono privati di momenti preziosi? E soprattutto, come comportarsi in questi casi?
«Dipende dall’occasione, chiaramente. Spetta al genitore il compito di conoscere il proprio figlio: indole, gusti, tempi, ritmi di apprendimento, capacità di tollerare la frustrazione, ecc. e in base a quello calibrare le scelte successive come, per esempio, la tipologia di ristorante o l’effettiva presenza del bambino nel locale. Sarebbe frustrante per tutti pretendere che un bambino di tre anni stia buono per due ore seduto a tavola in un ristorante. Che opzioni ci sono? Scegliere un locale che abbia la zona giochi, o portare da casa qualche gioco da fare insieme (non il tablet, per favore) o uscire insieme al bambino per una piccola passeggiata o, se possibile, chiedere a nonna, zia, babysitter di tenere il bambino per quella sera… tutto può essere occasione di apprendimento e un genitore ha il potere di cogliere ogni opportunità per insegnare ai figli valori e comportamenti virtuosi come la pazienza, la tolleranza, l’accettazione…
Alcuni spunti. La vita non è né giusta né ingiusta, semplicemente accade. Noi abbiamo il potere di decidere se farci condizionare da ciò che accade oppure no. Non è semplice, ma con un po’ di pratica diventa possibile. Quindi posso decidere se farmi condizionare da un ristorante con regole che io non condivido oppure rivolgere la mia attenzione altrove.
Ogni volta che incontriamo un ostacolo ci troviamo di fronte ad un bivio dove possiamo scegliere in che modo vedere l’ostacolo: come un problema o come un’opportunità? Dipende da noi se lamentarmi perché sta succedendo qualcosa di sgradevole o se provare ad alleggerire l’atmosfera. Non so quante volte mi è capitato di iniziare a chiacchierare in aereo con la persona che in quel momento “disturbava”… il più delle volte è sufficiente focalizzare la sua attenzione su un argomento di suo interesse e il gioco è fatto. Non dico che ogni volta ci riesco ma che ogni volta che posso ci provo… il risultato a volte è davvero sorprendente, basta usare un tono di voce gentile, non giudicante, o semplicemente chiedere “posso aiutarti?” provate!
Ogni persona agisce secondo le sue regole. Noi potremmo non conoscere quelle regole e pensare quindi che il suo comportamento sia strano o inadeguato. Abbiamo il diritto di pensarlo perché anche noi abbiamo le nostre regole che possono essere diverse dalle sue. Quindi impegniamoci a non giudicare ma a chiedere rispettosamente di accogliere, per esempio, la nostra richiesta di abbassare il volume della voce. Non pretendiamo di avere ragione a tutti i costi.
La dottoressa Ferreli conclude poi così, con una citazione di Robert Fulghum:
“La massima parte che veramente mi serve sapere su come vivere,
cosa fare e in che modo comportarmi l’ho imparata all’asilo.
La saggezza non si trova al vertice della montagna di studi superiori,
bensì nei castelli di sabbia del giardino dell’infanzia.
Queste sono le cose che ho appreso:
dividere tutto con gli altri,
giocare correttamente,
non fare male alla gente,
rimettere le cose a posto,
sistemare il disordine,
non prendere ciò che non è mio,
dire che mi dispiace quando faccio del male a qualcuno,
lavarmi le mani prime di mangiare,
i biscotti caldi e il latte caldo fanno bene.
Condurre una vita equilibrata: imparare qualcosa, pensare un po’ e disegnare,
dipingere, contare, ballare, suonare e lavorare un tanto al giorno.
Fare un riposino ogni pomeriggio.
Nel mondo badare al traffico, tenere per mano e stare vicino agli altri.
Essere consapevole del meraviglioso.
Ricordare il seme nel vaso: le radici scendono, la pianta sale
e nessuno sa veramente come e perché, ma tutti noi siamo così…
i pesci rossi, i criceti, i topolini bianchi e persino il seme nel suo recipiente: tutti muoiono e noi pure.
Non dimenticare, infine, la prima parola che ho imparato, la più importante di tutte: guardare.
Tutto quello che mi serve sapere sta lì, da qualche parte: le regole auree, l’amore, l’igiene alimentare, l’ecologia, la politica e il vivere assennatamente.
Basta scegliere uno qualsiasi tra questi concetti, elaborarlo in termini adulti e sofisticati e applicarlo alla famiglia, al lavoro, al governo, o al mondo in generale , e si dimostrerà vero, chiaro e incrollabile.
Pensate come il mondo sarebbe migliore se noi tutti, l’intera umanità, prendessimo latte e biscotti ogni pomeriggio e ci mettessimo poi sotto le coperte per un pisolino, o se tuti i governi si attenessero al principio basilare di rimettere ogni cosa dove l’hanno trovata e di ripulire il proprio disordine.
Rimane sempre vero, a qualsiasi età, che quando si esce nel mondo è meglio tenersi per mano e rimanere uniti.”

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