Urzulei, una frana sulla carreggiata. Chiusa la strada in entrambi i sensi di marcia
Sul posto stanno operando ANAS, Vigili del fuoco e Carabinieri per ripristinare il traffico.
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A Ulassai – così come in tanti altri luoghi della Sardegna – quando moriva qualcuno, tutta la famiglia si riuniva intorno al defunto. Prima di portarlo in chiesa, arrivava il falegname con la bara, che aveva preparato la mattina stessa dopo aver preso le misure. In seguito, però, le bare cominciarono a essere realizzate in serie.
Intorno al defunto si radunavano la moglie, vestita di nero con un fazzoletto sulla testa, le sorelle, le cognate e i fratelli. Tutti cantavano a turno, parlando però della propria famiglia. Come racconta Simonetta Delussu nel libro Stregoneria in Sardegna, a un certo punto la cognata si alzava e cantava:
Deu fetti cittia chi
ci parti non sia
iscura connada mia
de nieddu esti bestia
bestia e da nieddu
pesa e pigasinteddu
esti a sindedu pigai
poitta mariu tenidi e sposai
e deppeusu festai
ae festai deppeusu
e s’arcu riuneusu
a riuneusu s’arcu
tottu eita pensu eu
su chi deppeu pensai
ca meda sunfriu asi
in sa malatia
e pena di tenia
e n di tengiu pena
ca asi sunfriu medache
tui chi podisi prega
la ca de coru ti d’avvertia
po sa familia
po sa tua e po sa mia.
Questo canto era dedicato a un uomo che per molti anni era stato gravemente malato. In questi canti si esaltavano soprattutto i pregi del defunto, spesso esagerandoli. Quando si parlava dei figli, in quasi ogni strofa si diceva “figliu miu”, mentre per il marito si usava “coro meu”.
Chi in casa non aveva nessuno capace di cantare, chiamava delle donne note come attittadoras. Tuttavia, alcuni erano contrari a questa pratica, perché ritenevano che i sentimenti più grandi dovessero esprimersi spontaneamente, dal cuore, come segno dell’affetto reale verso il defunto.
Testo tratto da “Stregoneria in Sardegna. Processione dei morti e riti funebri” di Simonetta Delussu, Parallelo 54 Edizioni.