Non solo mare, nell’Ogliastra delle acque cristalline, ma anche patrimoni montani d’importanza cruciale per la comprensione del nostro passato: nel Supramonte di Baunei – selvaggio, incontaminato e affascinante come solo gli ambienti un po’ wild sanno essere – c’è una fortezza risalente al nuragico.

Il suo nome è Su Doladorgiu e sorge nell’altopiano del Golgo.

La sua costruzione risalirebbe all’età nuragica, come abbiamo detto, quindi tra il 1800 e il III secolo a.C. e la sua funzione pare fosse difensiva. Sebbene comunque non ce ne sia la certezza, la fortezza – che si trova arroccata su un colle roccioso –, corredata anche da numerose torri e da un nuraghe, sembra dominare la vallata sottostante, avendone completa visibilità: da qui l’ipotesi del suo scopo.

A chiamarla “Fortezza di Doladorgiu” fu il dottor Elio Aste – scrittore, fotografo naturalista nonché trekker esperto di tutta la zona – che la scoprì nel maggio del 1985. A ipotizzarne la funzione di difesa fu proprio lui, che realizzò anche una ricostruzione ideale del luogo originario.

Il dottor Aste, nel corso della sua lunga carriera, ha battuto palmo a palmo il territorio di Baunei: da questo amore per questa zona selvaggia e fascinosa nacque anche il libro “Sardegna selvaggia”, dedicata proprio al Supramonte del paese ogliastrino.

In Sardegna esiste un unico sito – e tra i pochi in Italia – in cui veniva estratta l’antracite, un carbone fossile paleozoico, contenente un’alta percentuale di carbonio – circa il 95% – e dall’elevato potere calorifico.

Parliamo del bacino carbonifero di “Fundu ‘e Corongiu” di Seui, scoperto nel 1827 dal Generale Alberto Lamarmora e attivo dal 1870 fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso.

Oggi rimangono alcuni edifici, oramai circondati dalla vegetazione, testimonianza di questa avventura industriale del paese montano.

Tra questi, alcuni fabbricati nella zona di “Fundu de Corongiu”, dove veniva estratto il minerale “grezzo” per poi essere trasportato attraverso una teleferica nella Laveria.

Ph: Roberto Anedda

Questa struttura, nella località San Sebastiano, dove l’antracite subiva il “lavaggio”, è ancora visibile nelle vicinanze della linea Mandas-Arbatax. Qui il carbone veniva caricato sui vagoni del treno, diretto al porto ogliastrino.

Ph: Roberto Anedda

Invece non c’è più traccia degli ingressi della miniera che portavano alle viscere della Terra, varcati da tanti operai per lavorarsi il pane. Alcuni sono crollati e altri sono stati chiusi per sempre, per evitare possibili incidenti.

Ph: Roberto Anedda

Uno di questi era il Pozzo di Sant’Antonio, dove sopra l’ingresso, era presente una piccola statuetta in gesso bianca del protettore dei poveri e degli oppressi. Chissà quanti minatori avranno scrutato la nicchia di Sant’Antonio da Padova osservando il simulacro, poco prima di iniziare il duro turno di lavoro. Alcuni di questi persero la vita a causa delle frane delle gallerie, quasi tutti si ammalarono di silicosi.

Roberto Anedda

La grave malattia professionale causata dall’inalazione di polveri di anidride silicica, durante le fasi estrattive del minerale. Infatti le conseguenze sono gravi e irreversibili: portano ad un’insufficienza polmonare invalidante e una condanna ad una breve esistenza. Oggi vogliamo pubblicare una rara immagine di questo accesso, pensando ai minatori che l’hanno oltrepassato. Una foto scattata nella fine degli anni ’60 da Anedda Achille, quando la miniera era già stata chiusa e in tanti emigrati.

Ph: Pozzo di Sant’Antonio della Miniera di Fundu de Corongiu di Seui, fine anni ’60. Ph: Achille Anedda