Si trasferisce per amore in Sardegna a 25 anni e decide di restare: la storia di Virginie Comas-Leone

«Di questa terra ancestrale amo tutto» Virginie lavora all’Università di Cagliari, è innamorata pazza della Sardegna e ha un sogno: tradurre un autore sardo in francese
«Di questo “continente” ancestrale amo tutto: dall’aridità della sua terra ai suoi lidi trasparenti e profumati, dalla sapienza dell’arte dolciaria alla ricchezza dell’artigianato e… gli artisti, che spesso e volentieri traggono la loro ispirazione alle radici della storia che li culla da sempre, dai crepuscoli che promettono ai pranzi con i pastori, senza piatti né tanto meno tovagliato, solo un cammino acceso e un enorme pane Civraxiu, una forma di formaggio delizioso sapientemente posizionato per sciogliersi lentamente e un barattolo gigante di miele di corbezzolo. Niente acqua, solo vino, nero che più nero non si può, e abbardente: un altro fuoco… ho anche vissuto questo… A Sa Pippìa quel pranzo è rimasto nel cuore, forse più delle raffinate pietanze dei ristoranti stellati che ho avuto modo di gustare nella mia fortunata vita.»
Il racconto della 58enne Virginie Comas-Leone ha un nonsoché di meraviglioso, è uno di quelli che ti rimangono nel cuore, perché quando una parigina doc – con il naso all’insù e la bellezza di chi ha un animo colmo di entusiasmo e un viso d’angelo – si innamora della Sardegna, decidendo di seguire il cuore e rimanendo nell’Isola per più della metà della sua vita, è sicuramente magico.
Ma facciamo un salto all’indietro.
«Partii… Lasciai la mia casa – appena comprata e ristrutturata – per le campagne di Castiadas: un triplice salto mortale, senza rete di protezione né tanto meno applausi, che i miei non mi perdoneranno mai! Io avevo 25 anni. Giovanile spensieratezza penserete, per me era solo una questione di sopravvivenza.»
Eppure tutto nella sua Parigi procede normalmente.
«La mia vita scorreva tranquilla, tra le lezioni alla Sorbona, i cinémas d’essai, i tanti ristoranti “etnici”, le passeggiate lungo Senna, i compagni di banco e i week-end fuori, i fidanzati… Ma a me tutto ciò stava stretto, senza parlare della famiglia che mi toglieva l’ossigeno.»
E allora il misterioso E. la traghetta verso la sua Isola.
«Approdai in Sardegna, senza casa né lavoro. Piansi sconsolata ore intere… L’atterraggio (dal triplice salto) è stato durissimo, ma in cuor mio qualcosa mi diceva che sarei rimbalzata, che quella era l’unica strada percorribile (anche rigorosamente bianca) per vivere libera, nonostante gli incessanti conflitti con i miei.»
In questo lembo di terra antico e fiero è già stata l’anno precedente, del resto, in qualità di lettrice in un liceo cagliaritano.
«Completai la mia tesi (tradussi in lingua francese Il mio Carso di S. Slataper), vivendo con E. in una vecchia casa del Corso, grazie all’intelligentissima benevolenza dei suoi, i quali continuano a volermi bene come a una figlia, come tutta la loro famiglia. Ma finito l’anno scolastico, ho dovuto fare ritorno a Parigi e ritrovai la mia casetta sotto i tetti del Trocadéro, col vicino di casa che suonava la chitarra al tramonto, le gambe penzolanti nel vuoto: abitavamo al settimo piano (!), ma non era il settimo cielo per me, perché tutto m’ingabbiava, specialmente dopo aver vissuto una vita “di coppia”, per così dire, e così scappai insieme a E. Affittai la mia casa senza rimorsi né rimpianti, e lasciai tutto, a parte i miei libri, che trasportammo sul tetto della Golf del padre. Pensavamo non farcela sulla lunga salita dell’autostrada nei pressi di Montecarlo.»
Poi arriva Castiadas, dove E. ha l’azienda nascente.
«Ricordo un cielo assolutamente terso, di una nitidezza sconfinata, sembrava lavato, e di notte risplendeva di innumerevoli stelle… e in quel cielo una buona stella per me c’era, visto che trovai subito lavoro all’Università degli Studi di Cagliari in qualità di Lettrice di madrelingua. Molti dei miei studenti avevano la mia età, o erano addirittura più grandi di me, ma io ho adorato questo sbalzo repentino dai banchi della Sorbona alla cattedra di Piazza d’Armi (un altro triplice salto mortale!). Mi sono sempre ispirata ai miei docenti della Sorbona, ai loro insegnamenti buoni, al rispetto che avevano di noi, alla pazienza e all’amore delle cose fatte bene. E la cosa mi riuscì, a quanto pare, se considero la vicinanza dei ragazzi con me. Il loro contatto è molto stimolante e tuttora mi appassiona.»
Ma avviene presto una svolta: alcuni docenti chiedono a Virginie di tradurre saggi e relazioni per alcune conferenze e lì la parigina-sarda si emoziona, capendo che in fondo quello è proprio il suo mondo.
«Mi si aprì un mondo creativo, dagli orizzonti allargati a dismisura per via delle ricerche che quelle traduzioni mi richiedevano. Iniziai poi a collaborare con editori locali, agenzie cagliaritane e continentali. Sono diventata perito del Tribulale di Cagliari; mi chiesero pure di fare l’interprete e ho accumulato parecchie esperienze nel settore.»
La storia con E. finisce però, dopo dieci anni di convivenza. «Era ormai conscio che non gli avrei mai dato una famiglia. Mi spiace sinceramente lo abbia fatto così tardi perché la differenza di età con i figli che ha poi avuto è maggiore di quanto avesse desiderato. Ma la vita di famiglia non mi si confaceva. Assolutamente. Ho sempre difeso la mia libertà con le unghie e con i denti. È la mia più bella riuscita, oltre alle pagine tradotte, anche letterarie… Ma troppo poche finora.»
Intanto, visita la Sardegna in lungo e in largo e il suo amore per le tradizioni, per il suo essere granitica e forte ma anche ospitale cresce a dismisura.
«Ho imparato a leggere i silenzi dei suoi abitanti e sondare gli oceani delle loro pupille, ascoltarli quando (finalmente!) si aprono ad una francese cosi estrosa ed estroversa. Di questo “continente” ancestrale amo tutto: dall’aridità della sua terra ai suoi lidi trasparenti e profumati, dalla sapienza dell’arte dolciaria alla ricchezza dell’artigianato e… gli artisti, che spesso e volentieri traggono la loro ispirazione alle radici della storia che li culla da sempre, dai crepuscoli che promettono ai pranzi con i pastori, senza piatti né tanto meno tovagliato, solo un cammino acceso e un enorme pane Civraxiu, una forma di formaggio delizioso sapientemente posizionato per sciogliersi lentamente e un barattolo gigante di miele di corbezzolo. Niente acqua, solo vino, nero che più nero non si può, e abbardente: un altro fuoco, ho anche vissuto questo… A Sa Pippìa quel pranzo è rimasto nel cuore, forse più delle raffinate pietanze dei ristoranti stellati che ho avuto modo di gustare nella mia fortunata vita.»
E se gli si chiede se farà mai ritorno in Francia, risponde: «E chi lo sa! Qui però c’è la mia vita e i miei affetti, oramai… Certo che nel mio Paese ci torno, specialmente quando comincio a sognare in francese: è un segnale inconfondibile. Ma ancora la mia buona stella non ha esaudito il mio vero sogno, quello che non svanisce quando ho gli occhi aperti, ossia quello di tradurre un autore sardo. La produzione letteraria isolana, come quella artistica, è ricca, fertile, e diversificata. Chissà se mai ci riuscirò!»

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