Indovina il costume tradizionale: sapete a quale paese sardo appartiene?

Una gonna a palloncino il cui retro viene sistemato sopra al capo: sapete a quale paese della Sardegna appartiene questo particolare costume tradizionale?
Oggi vi portiamo nel Nord della nostra Isola, per la precisione a Ittiri, borgo di quasi 8mila abitanti in provincia di Sassari. Vi facciamo scoprire le caratteristiche del suo costume tipico grazie alle informazioni del Gruppo Folk del paese.
“L’aspetto forse più interessante dell’abbigliamento tradizionale di Ittiri è la continuazione del suo uso normale, e non solo folcloristico, sino ai giorni nostri. Ancor oggi, infatti, un discreto numero di anziane indossa quotidianamente il “costume “, sebbene in forme aggiornate rispetto alla tradizione più radicata.
Gli indumenti più caratteristici dell’abbigliamento feriale, mantenuto sino al secondo dopoguerra, sono senza dubbio le gonne di teletta (munneddas de teletta). Queste adottano sostenute stoffe commerciali di cotone, tinte in filo, con caratteristici motivi di rigato o scacchiera, nei vari toni del crudo, degli azzurri, dei grigi e dei rosa, distinte nella parlata ittirese con denominazioni che definiscono anche il corrispondente indumento (munnedda a rigadinu, a mattones, a tramagatta, a costas de appiu, a petta ‘e sorighe,ecc.). Queste sottane, lavorate a fittissime pieghe negli esemplari più pregiati, erano usate anche alla rovescia e su un verso presentano una balza, generalmente più scura, delle medesime telette o di felpe a righe orizzontali (forra ‘e pefa). Poiché si usava una stratificazione di gonne, sino al 1920 circa anche sette – dieci indossate contemporaneamente, quella superiore poteva essere rovesciata e poggiata sul capo, formando una specie di manto (a munnedda ‘estida e cuguddada). In alternativa una gonna di teletta, non indossata, poteva essere sistemata sulla testa come una cappa, con il cinturino orientato sopra la fronte e la parte pieghettata fasciata sopra il busto (munnedda a trinza). Tali copricapo sono decaduti da circa ottant’anni mentre si conserva ancora il grembiale – copricapo , detto pannellu ‘e cuguddu. Probabilmente originato dal normale grembiale, questo accessorio è confezionato con rasatello commerciale nero o scuro, stampato a motivi policromi ( oroneddas, budrones de ua, listrones, fiores indeorados, fozas de nughe, colovuru e pansè, ecc.). Bisogna ricordare che quando le fabbriche che fornivano queste stoffe smisero la produzione alcune artigiane ittiresi riprodussero le vecchie decorazioni realizzandole mediate mascherine traforate e colori ad olio: si tratta dell’unico caso di stampa popolare su tessuto finora noto in Sardegna.
Oltre alle gonne di teletta, facevano parte integrante del vestiario feriale conservato sino al 1950 una lunga camicia di tela di cotone bianco ,una sciarpetta copriseno di stoffe variamente ornate e stampate ed un busto di tipo rigido. Il bolero (corittu) in ambito feriale era usato raramente, perché le donne stavano normalmente in maniche di camicia). A parte le gonne ed il grembiale copricapo, venivano indossati costantemente due fazzoletti commerciali sovrapposti ( su muncaloru a corru e su muncaloru ispartu) generalmente di lanetta o rasatello di cotone stampati a motivi colorati su fondo chiaro. Si segnala che il bolero, forse a causa della sua ridotta lavabilità, attorno al 1925 cominciò a decadere e venne sostituito dai manighiles, simili nella struttura, ma con maniche a palloncino ed eseguiti con disparate stoffe commerciali, mentre l’allacciatura di nastri passanti del busto fu modificata con l’attuale pettigliu rigido. E’ importante ricordare che in alcune occasioni, rilevanti ma non di gala, si tendeva ad indossare indumenti più scuri e di maggior pregio di quelli appena descritti (serios), come le gonne blu o nere (munneddas calorinas e nieddas) e grembiali di damasco. La documentazione disponibile, data anche da non pochi indumenti sopravissuti, attesta un’altra foggia femminile feriale, dai caratteri arcaici, che sopravviveva ancora negli anni attorno al 1915. L’abito comprendeva una gonna d’orbace (su furesi o sa munnedda de furesi), tinta con infusi vegetali nei toni del fulvo, del granato e del marrone, che generalmente terminava con una balza inferiore di robusta tela turchina. In questo abbigliamento era compresa anche una scura cuffia di tela calancà (iscoffia), sotto la coppia dei gia ricordati fazzoletti. Il fazzoletto superiore nelle donne anziane o più austere, nella fase di utilizzazione di questa veste, era spesso di tela di cotone candido ( muncaloru de ciaffara o muncaloru biancu).
Lo stato di lutto stretto prevedeva colori e fogge specifiche che, dopo i Primi del 1900, divennero ancor più differenziate da quelle normali. In effetti, sino alla fine del 1800 , si registrano segni di lutto piuttosto semplici : indossare alcuni capi alla rovescia (la gonna, il grembiale, la camicia), ingiallire con il fumo i normali indumenti bianchi, fermare il fazzoletto sotto il mento con uno spillo (muncaloru aguzadu ) anziché con il nodo. Dopo il 1920 il nero assoluto divenne obbligatorio per le vedove ed, in alternativa alle gonne-copricapo, iniziò progressivamente a diffondersi l’uso dello scialle di tibet nero (isciallu a biccu), con la caratteristica punta impressa con il ferro da stiro in corrispondenza della fronte. Per altro, lo scialle, scuro o scelto nelle sfumature del marrone, del blu, del cachi e dell’avorio, venne acquisito anche nell’ambito del normale vestiario domenicale e feriale, soprattutto per intervenire alle funzioni religiose e per le visite importanti.
Di solito nelle famiglie ittiresi dedite all’agricoltura, all’allevamento ovino o al piccolo artigianato, si faceva cucire, gia quando le donne erano adolescenti un abito festivo, estire ruju, utilizzato per le nozze e senza sensibili variazioni anche nelle solennità. Su estire ruju è strutturalmente simile all’abito feriale, ma se ne differenzia per i tessuti, tutti di pregio, per il cromatismo acceso, per l’ornamentazione elaborata e per confezione e finiture molto accurate. La gonna, che dà il nome all’intera foggia, è di fine scarlatto, fittamente pieghettata, ad eccezione del pannello anteriore, staccabile, e generalmente ha una balza formata da velluto di seta scuro, operato o liscio, inquadrato da galloni dorati, oppure di seta bianca riccamente ricamata a fiorami multicolori. Il grembiale (pannellu ‘e tullu) del bestire ruju è normalmente di tulle bianco ricamato a fiorami o con pampini e grappoli d’uva , a punto catenella, bianco su bianco. Il bustino rigido (imbustu), associato ad una sciarpetta copri-seno per lo più di tulle, pizzo o seta chiara , dagli anni attorno al 1925 è quasi sempre ricoperto di raso bianco, ricamato a rose e foglie con fili di seta multicolori e canuttiglio dorato. In precedenza s’imbustu di gala era solitamente di broccato floreale per lo più a fondo bianco, percorso da cordoncini serici policromi applicati, detti cordones, peculiari del “ costume ittirese”. Il bolero (su corittu) è solitamente di velluto di seta liscio nei toni del rosso oppure viola ed è anch’esso decorato con i caratteristici cordones di seta ritorti . Il capo presenta vistose asole in corrispondenza degli avambracci, un ricamo floreale presso il gomito ed è ulteriormente impreziosito da lustrini (lustrinos) di metallo argentato. In versioni più lussuose e meno diffuse, alcuni corittos risultano estesamente ricamati a fiorami, a sostituire i cordones; tipi relativamente meno pregiati sono decorati, invece, con varie passamanerie commerciali. Il copricapo del costume di gala è formato da una cuffia a sacco (iscoffia), sino al 1930 in broccato e successivamente quasi sempre in raso bianco ricamato, sulla quale si stende a drappo un velo di tulle bianco (tullu o velu), in sintonia con il grembiale. Su estire ruju non viene mai indossato senza un ricco corredo di gioielli, fissato rigidamente dalla tradizione. Venti grossi bottoni (sa buttonera), a forma di melagrana in filigrana d’argento, decorano il giubbetto agli avambracci, dieci per parte, e si deve ricordare l’adozione di esemplari tutti in oro, introdotta da pochissime famiglie di notabili, come segno di ulteriore distinzione fra i “ ricchi “. La restante dotazione di gioie , costituita da un medaglione in lamina (medaglione o brojolo) fissato ad un girocollo o ad un vellutino nero, bottoni gemelli (buttones de pettorra) che chiudono la camicia allo scollo, una catena “ saliscendi” con passante scorrevole (cadena a jobos o a musciu) che viene intrecciata a forma di M mediante due due spille (fremmaglios), è comunque completamente in oro. Una o due pesanti collane di corallo rosso, spesso sfaccettato (collanas de coraddu piccadu), poi, conferiscono un vivace tono di colore all’insieme degli ori, assieme alle gocce degli orecchini (araccadas) anch’esse in corallo ed oro. Oltre all’abito appena descritto, era in uso quello festivo e nuziale delle donne “povere”, detto detto “ bestire nieddu”, posseduto anche dalle donne benestanti che, in alternativa a quello rosso, lo indossavano nelle festività minori. Rispetto a su estire ruju, su estire nieddu appare più sobrio e modesto in tutte le sue componenti, benché la struttura complessiva sia la medesima. La gonna è di panno nero quasi sempre con semplice balza. Il velo è solitamente un fazzoletto di sottilissima tela di seta color crudo, ricamato tono su tono” o operato ad intaglio su fondi di tulle o organza. Il bolero, poi, è in genere meno elaborato nelle decorazioni e quasi sempre di velluto di cotone, granato, viola e soprattutto nero (corittu nieddu). Per il grembiale, anziché il tulle ricamato, vengono adottati pizzo meccanico, sete damascate scure, velluto operato oppure tele di seta, abbinate al copricapo. Il corredo dei gioielli di questo tipo di veste, anche se erano consentite diverse modulazioni, era in genere meno prezioso di quello del bestire ruju. Di solito si portavano uno o due bottoni d’argento a ciascuna manica del bolero e mancava la lunga catena“saliscendi”.
Le fogge tradizionali maschili sono decadute prima di quelle femminili, ma non in periodi tanto lontani perché sia scomparsi reperti antichi o la precisa memoria. Il complesso dei dati mostra che nel caso del versante maschile, contrariamente a quanto avveniva per quello femminile, le differenze fra l’abito degli abbienti e quello dei meno abbienti sono ben definite anche nell’ambito feriale. Invece on si apprezzano variazioni eclatanti fra quest’ultimo ambito e quello festivo, per quanto nelle grandi occasioni si tendesse ad indossare capi nuovi o in buono stato . La struttura generale dell’abito maschile, comunque, rimane la medesima sia per l’uso feriale o festivo, sia per le diverse classi sociali. Il copricapo è sempre una berrita nera a sacco, lungo circa 60 cm, in panno e, sino ai primi del 1900, in tessuto tubolare di fittissima maglia, che si disponeva quasi sempre piegata su un lato del volto o arrotolata verso la fronte. La camicia (bentone), per lo più di tela di cotone bianco, giunge sino al bacino, ha maniche ampie ed uno sparato in corrispondenza del petto, lavorato a fittissime pieghette verticali impunturate , chiuso con piccoli bottoni di madreperla; il basso colletto ha punte arrotondate ed è rivoltato. Il corpetto, cosso, può essere del tipo smanicato o con lunghe maniche strette e sagomate. E’ normalmente di scarlatto per i proprietari (massajos) e di panno nero i braccianti, ma chiude in tutti i casi a doppio petto su un lato mediante ganci metallici nascosti. Nei giubbetti di scarlatto, che sono orlati con sottile nastro di velluto nero, il settore esterno presso l’avambraccio presenta una decina di lunghe finte asole, sempre nere, entro una sola delle quali passa un bottone sferoidale d’argento.
Alcuni rari cossos in panno rosso, verosimilmente dei primi del 1900, sono interessati su un lato da larghe applicazioni di velluto nero, a contrasto, che ne attestano l’originario uso a doppio diritto. Un gonnellino (ragas) nero, d’orbace, ma anche di panno, lavorato con fittissima pieghettatura, era sempre associato a larghissimi calzoni di tela bianca rimboccati in basso entro le uose (vosas o mesas caltzas), anch’esse d’orbace nero Normalmente questo insieme doveva essere accompagnato da una giacca d’orbace nero (capottinu) munita di cappuccio (cuguddu) che restava aperta sul davanti, mettendo in bella mostra le paramonture (faladas) in velluto nero impunturato. Una sorta di gilet double face (tzamarra) era portato soprattutto dai pastori, che, a seconda delle stagioni o delle necessità, voltavano all’esterno il lato di pelle ovina intonsa o l’altro, di velluto blu o comunque scuro. Il lutto stretto per gli uomini durava pochi mesi ed era contrassegnato dalla barba non rasata, dal cappuccio della giacca o del capotto calato sugli occhi. Gia alla fine del 1800 a Ittiri , come nei paesi circostanti, andavano diffondendosi indumenti di ispirazione cittadina, come gilet scuri ad un petto e tasche più o meno evidenziate da applicazioni di passamanerie in tinta. L’innovazione più importante, tuttavia, che con il passare del tempo finì per prevalere, venne introdotta da alcuni individui che portavano calzoni a tubo di taglio borghese (calzones longos) sempre neri e confezionati in orbace, al posto delle antiche ragas e dei capi ad esse coordinati.

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