Sconfigge il tumore e diventa infermiera nell’ospedale dove è stata curata: la storia dell’ogliastrina Ilenia Cocco e della sua forza
Ha quattordici anni quando le viene data una notizia tragica: Linfoma non- Hodgkin. Ma Ilenia Cocco, oggi 33enne, non si perde d’animo, combatte come una leonessa e sconfigge il tumore. Ora, lavora al Microcitemico – ospedale dove venne curata – come infermiera, suo sogno da sempre, ed è mamma di due splendidi bambini. «Se noi racchiudiamo il dolore all’interno di noi stessi,» dice «non possiamo trarre nessun vantaggio ma dobbiamo condividere.»
Ci sono due modi per guardare indietro alle vicende infauste del proprio passato: uno è concentrarsi sulla negatività e perdersi in essa, senza trovare la forza di affrontare il presente e sognare il futuro, e l’altro, be’, è imparare qualcosa, fare tesoro di tutte le esperienze – belle e brutte che siano – e rinascere, un po’ come le fenici.
Quella della villanovese 33enne Ilenia Cocco – oggi infermiera affermata, sogno coronato, moglie e mamma di due splendidi bambini – è una storia di coraggio, di forza, di determinazione e di positività.
Ma torniamo indietro al dicembre 2003, più precisamente al 27. Ilenia, allora ragazzina, ha una brutta crisi respiratoria. I genitori si catapultano subito al Pronto Soccorso dell’Ospedale Nostra
Signora della Mercede di Lanusei e lì, dopo le prime analisi, Ilenia viene ricoverata d’urgenza. «Purtroppo i parametri vitali erano molto scadenti e mi venne fatta una Tac d’urgenza che evidenziò una massa di dimensioni cospicue e del liquido nel polmone sinistro che dovettero subito drenare. Dopo qualche giorno passato nella Rianimazione dell’ospedale di Lanusei venni trasferita a Cagliari, ma vista la gravità della situazione non mi trasferirono subito all’ospedale Microcitemico di Cagliari, ma in un primo momento presso l’ospedale A. Businco, meglio conosciuto come Oncologico, e solo dopo qualche giorno nel reparto di Oncoematologia Pediatrica del Microcitemico.»
A gennaio 2004 la diagnosi: Linfoma non-Hodgkin.
«Ricordo benissimo che i primi attimi della diagnosi furono devastanti, ma sentivo una forza interiore indescrivibile che, pensandoci tuttora, era fortissima: avevo voglia di guarire, speravo con tutta me stessa di farcela, non ho mai smesso di pensare che sarebbe andato tutto bene. La positività insita in me mi aiutava ad andare avanti. Ascoltavo alla lettera tutto ciò che il personale medico, infermieristico e di supporto mi chiedevano di fare. Mi rattristava tantissimo il non poter più frequentare la scuola e le mie meravigliose compagne della 1B del Liceo Psicopedagogico di Lanusei ma, vista la mia voglia di non perdere la quotidianità, i miei familiari, insieme alle istituzioni scolastiche e comunali, si attivarono per non farmi perdere il filo dell’istruzione e delle relazioni.»
La parola “tumore” non fa parte della sua vita, quindi la prima reazione – sua e dei suoi familiari – è di grande spavento. «La mia prima domanda ai medici è stata: “Ma quindi devo morire?”. Loro sono stati bravissimi, mi hanno spiegato che esistevano delle terapie molto forti e che io avrei iniziato da lì a poco la chemioterapia, che avrebbe distrutto le mie cellule cattive, che avrei perso i capelli, le unghie, ma che questo percorso mi avrebbe portato alla guarigione. Una volta avute tutte le spiegazioni alle mille domande che io avevo posto, ho iniziato ad accendere la “lampadina della positività” e da lì ho sempre pensato che tutto sarebbe andato per il meglio.» Molte sono le persone che le stanno accanto in questa prima, tragica fase. In primis, Ilenia Cocco sente di ringraziare se stessa: «Non ho smesso un giorno di credere in me, di ricordarmi quante risorse avessi dentro.»
Poi, commossa, rivolge il suo ringraziamento più accorato ai suoi familiari. «Ringrazio mio fratello Matteo, mia madre e mio padre, volato in cielo troppo presto: mio fratello perché mi ha permesso la rinascita e la riconquista della vita grazie alla sua donazione di midollo osseo e anche per aver smesso a 10 anni di fare il piccolo di casa, imparando a essere forte lontano per un periodo dai nostri genitori, ringrazio poi mia madre e mio padre per avermi aiutata a riprendere in mano la vita durante la malattia. Un grazie in particolare a tutta l’equipe dell’Oncoematologia e del Centro Trapianti, chi più chi meno hanno reso le mie giornate meno dolorose. Un particolare grazie alle Volontarie Abos che coloravano le nostre giornate, persone meravigliose che dedicavano momenti della vita quotidiana a noi piccoli pazienti.
Ecco, quando la 33enne villanovese parla del fratello e dell’enorme gesto d’amore, dice che il ragazzo, all’epoca bambino, le ha “donato la vita”. Donare il midollo osseo alla sorella malata in un’età dove si dovrebbe pensare solo ai giochi e ai cartoni animati non deve essere semplice, ma Matteo non ha pensato nemmeno per un momento di non farlo. «Durante l’attesa per l’esecuzione della radioterapia, in una visita di controllo purtroppo viene riscontrata la ripresa della malattia, la cosiddetta recidiva che nessun paziente oncologico mai vorrebbe sentire dopo un lungo percorso di chemioterapia. A quel punto l’equipe dell’Oncoematologia e del Centro Trapianti di Midollo Osseo decide di intraprendere l’unico percorso possibile per me in quel momento, il Trapianto di Midollo Osseo. Come primo step viene fatta la tipizzazione ai miei familiari, mio fratello, mamma e papà. Matteo viene individuato compatibile al 100% e all’età di 10 anni, dopo tanta fatica e preparazione, il 22 aprile del 2005 mi donò il midollo osseo, che mi portò alla rinascita. Ho trascorso due mesi in una camera sterile dove prima del trapianto sono stata sottoposta al condizionamento, cioè una chemioterapia molto forte per distruggere completamente il mio midollo che ormai non funzionava più correttamente, quindi non avevo più difese immunitarie, niente globuli bianchi, rossi e piastrine. L’igiene doveva essere maniacale perché correvo il rischio d’infezione. Dopo l’infusione del midollo, il corpo piano piano ha iniziato a riprendersi, i medici si stupirono, da quel momento in poi mi ritenni veramente fortunata. I mesi passarono e ripresi in mano la vita, piano piano affrontavo nuovamente il mondo esterno, ma mi rendevo conto di avere una maturità diversa e speciale, non di una comune ragazzina di 15/16 anni.»
Durante questo tormentato ma sempre ottimista percorso – siano benedetti i caratteri positivi e la forza d’animo –, matura in Ilenia la consapevolezza di voler basare la sua vita futura sulla cura del prossimo.
«Sono stata colpita dall’amore e della serenità con cui le mie oramai colleghe mi avvolgevano durante le cure, mi ascoltavano, parlavano con me. Non avrei mai creduto di poter lavorare al Microcitemico, ospedale in cui sono stata curata. Ci sono momenti in cui mi chiedo se stia sognando. Cerco sempre di essere empatica con i miei pazienti e di usare tutto l’amore che mi è stato trasmesso. Ricordo anche qualche caso, molto raro fortunatamente, in cui non sono stati molto professionali, ma ringrazio anche loro perché so come non devo comportarmi. Quando sfiori la morte capisci quanto è importante vivere e aiutare gli altri a stare bene anche nella sofferenza. Chi meglio di una persona che ha vissuto sulla propria pelle una tale sofferenza sa capire chi è in difficoltà? L’arma di noi infermieri, ribadisco, è proprio l’empatia, immedesimarsi nei panni di chi sta male, aiutare gli altri fa bene non solamente a chi lo riceve, ma anche a chi lo dona.»
Ilenia Cocco sceglie questa carriera perché pensa che il suo infausto percorso l’abbia istruita su un mondo, quello sanitario, dove servono degli strumenti in più, umani e di comprensione del prossimo: «Conoscendo esattamente cosa si prova durante la malattia ho capito quanto oltre alla professionalità sia importante la comunicazione, la relazione che instauriamo con ogni persona. Nel reparto dove attualmente lavoro alcuni pazienti passano dei periodi lunghi, e noi, come operatori, dobbiamo cercare di farli stare il più possibile a loro agio, dobbiamo creare una rete di sostegno che, oltre alle cure mediche e infermieristiche, sia fatta di sorrisi e risate. Mi ero promessa che avrei fatto qualcosa per gli altri per restituire tutto l’amore che avevo ricevuto.»
“Il passato può far male ma, a mio modo di vedere, dal passato puoi scappare oppure imparare qualcosa”: questa frase del Re Leone ben si adatta alla storia di Ilenia Cocco che, facendo tesoro dei momenti peggiori della sua vita, ha creato qualcosa di meraviglioso, di epico.
«Da questa esperienza, ho deciso che nello zaino della vita porto e porterò solamente positività, alcune cose che ho imparato devono e faranno sempre parte del mio bagaglio personale, ho sempre pensato che sia giusto raccontarlo, per dare forza a tante persone, a tanti genitori che si trovano nella situazione in cui si sono trovati i miei. Ho incontrato tanti amici di battaglia, alcuni sono qui con me e altri purtroppo non ci sono più fisicamente, ma sono sicura che ci osservano da un’altra dimensione e ci incoraggiano a dare il meglio della nostra vita anche per loro. Dal passato non bisogna scappare, non bisogna nasconderlo, ma utilizzarlo per migliorare sempre, avere nuovi obiettivi, motivi per crescere. Vado fiera di questa mia forza, so quanto valore ha la vita.»
Adesso Ilenia è, appunto, infermiera, mamma di due bambini, e guardando indietro da adulta a quella ragazzina a cui crollò il mondo addosso sente di volerle dire tante cose. Nonostante
tutto, adesso ringrazia il suo passato per la donna che è diventata. «Mi complimenterei con la Ilenia quattordicenne per la forza e la grinta che ha avuto, perché riguardando il film del Linfoma sembra tutto surreale. Sicuramente in quel periodo la malattia mi ha tolto tanto, ma successivamente mi sono accorta che mi ha dato tanto, la possibilità di guardarmi dentro, di riflettere sulle cose importanti della vita, di apprezzarla sempre nei vari momenti, nelle piccole e grandi sconfitte, tutte emozioni che mai avrei pensato di possedere. Ho deciso di diventare infermiera, è una scelta tanto bella ma altrettanto forte, e il destino credo mi abbia aiutato perché lavoro proprio nell’ospedale in cui sono stata curata. Quando vedo i piccoli pazienti cerco sempre di essere molto empatica con loro, di instaurare un rapporto di fiducia. Ho scelto di fare l’infermiera e non il medico perché rimango più a contatto con il paziente, posso instaurare un rapporto di amore,
perché i pazienti, oltre alle cure e alla professionalità di noi operatori sanitari, hanno bisogno di sentire anche dei sentimenti. Le terapie chemioterapiche, inoltre, possono causare infertilità, ma la vita ha deciso di donarmi due bellissime gioie: sono mamma di Samuele e Lorenzo. Samuele significa “il suo nome è Dio”, perché credo che ci sia qualcosa di mistico, è un dono che la vita ha voluto regalare a me e mio marito Sergio, il mio, nostro primo miracolo e, dopo qualche anno il suo fratellino Lorenzo.»
Con il suo racconto, la 33enne – ospite a maggio anche da Paola Saluzzi nel programma L’Ora Solare – vuole dare coraggio a chi, nella sua stessa situazione, si sente vacillare, pressato dal macigno della malattia. «Se noi racchiudiamo il dolore all’interno di noi stessi, non possiamo trarre nessun vantaggio ma dobbiamo condividere. Se mi avessero raccontato la mia storia avrei pensato si trattasse di un film.»
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