Lettera aperta a tutti gli ‘Orsini’: “Ho avuto l’infanzia sotto i sovietici. Non è stata felice”
Una lettera che parte dall'infanzia sotto il regime sovietico per parlare dell'attuale situazione bellica in Ucraina e dei risvolti mediatici della stessa in Italia.
Riceviamo e pubblichiamo la lettera inviata alla nostra redazione dalla giornalista lituana Daiva Lapėnaitė, presidente della Comunità Lituana in Sardegna e residente a Cagliari da circa 22 anni.
Una lettera che parte dalla sua infanzia sotto il regime sovietico per parlare dell’attuale situazione bellica in Ucraina e dei risvolti mediatici della stessa in Italia.
Ecco il testo della lettera
“L’inviato fisso al programma Cartabianca della televisione di stato italiano Rai3 il professor Alessandro Orsini sostiene che il suo nonno durante il fascismo abbia avuto un’infanzia felice. Ho avuto l’infanzia sotto i sovietici. I miei nonni e i miei genitori hanno vissuto per 50 anni sotto i sovietici. Non è stata un esperienza felice, anzi, non la augurerei a nessuno.
Sono nata a Vilnius, la capitale della Lituania. Uno stato indipendente, sovrano, libero che, però, ha vissuto sulla propria pelle il giogo sovietico. Per mezzo secolo.
Quando nacqui la mia patria non era libera, non era indipendente, era soppressa dietro la cortina di ferro sovietica. Sapete perché questa cortina? Perché quello che i russi facevano ai popoli occupati, annessi, sottomessi avrebbe fatto venire la crepapelle anche al nonno di Orsini.
Durante la mia infanzia non avevo i peluche colorati, non avevo Cicciobello o altri giocatoli comuni ai bambini nel mondo libero. Avevo i giocattoli di ferro, i cartoni animati impregnati di propaganda, i vestiti e i palazzi saturi di grigiore opprimente. Per andare a scuola dovevo indossare l’uniforme marrone scuro con il fazzoletto rosso al collo – il simbolo della bandiera sovietica. Dovevo studiare la lingua russa, la storia riscritta secondo i sovietici e la biografia di Lenin e ogni 22 aprile, il giorno del suo compleanno, dovevo portare i fiori di petali blu, žibutės, i primi fiori che spuntano nei boschi lituani dopo l’inverno, e depositarli ai piedi del monumento di Lenin, eretto nella piazza centrale della mia città. La mia città, la mia nazione, il mio popolo – che non ha niente a che fare né con la lingua russa, né con la religione ortodossa, né con la mentalità del russkij mir (mondo russo). Ciononostante invaso, occupato, annientato per fare spazio al “sole sovietico” dallo stesso popolo che oggi applica il suo modus operandi ad un altro popolo.
Quello che ora vediamo in Ucraina, noi in Lituania e in tutti i paesi nel secolo scorso finiti sotto la zampa del russkij mir, lo abbiamo già vissuto. Per almeno mezzo secolo. Da qui il russorealismo. Mentre il resto d’Europa, quella dall’altra parte del sipario di ferro, andava serenamente avanti, costruiva, cresceva, viveva. Noi non vivevamo. Arresti, torture, violenze, saccheggi, genocidio. Sradicati dalla nostra casa, dalla nostra terra e spediti verso la Siberia, stipati nei vagoni per gli animali.
Moltissimi, per non finire sterminati con intere famiglie, sono scappati. In tanti, particolarmente i sacerdoti, i diplomatici, gli artisti hanno trovato il rifugio in Italia. Tuttavia più di 20 milioni di persone, là dove sono entrati i russi, sono finite con le mani legate, sparate alla nuca, nelle fosse comuni. E chi non è finito nelle fosse comuni ha vissuto mezzo secolo di soppressione totale di qualsiasi libertà di pensiero, di scelta, di semplice movimento. Sapevate, che nessuno da dietro quella cortina di ferro poteva andare all’estero e nessuno dall’estero poteva mettere il piede in quel “glorioso impero sovietico” senza un permesso speciale e senza un agente KGB assegnato?
Sapete che tutte le chiese in quell’impero erano trasformate in gallerie nel migliore dei casi, semplicemente distrutte, derubate di tutto e chiuse nella maggioranza dei casi. Da bambina, mia nonna mi portava a fare il catechismo, clandestinamente, e io non potevo dirlo a nessuno se non volevo “problemi” per i miei genitori.
Sapete come si viveva dietro la cortina di ferro? Non si viveva. Per il popolo sovietico non esiste l’essere umano, non esiste il concetto della libertà o di diritti umani. Un essere umano – donna, uomo, bambino o nonno che sia – è soltanto uno strumento per costruire la “grande aurora sovietica” – un sole che non scalda, che non fa crescere niente, non illumina. Distrugge, annienta, elimina tutto quello che trova nel suo raggio.
E tutto questo per Orsini, un professore di una prestigiosa università italiana, che forma le giovani menti italiane, sarebbe una vita felice per un bambino? Che tipo di essere umano diventerebbe un bambino cresciuto in tale mondo? Un mostro. Un barbaro. Uno zombie. Esattamente come i soldati russi che oggi vediamo nei territori occupati dell’Ucraina dove distruggono, torturano, violentano, saccheggiano e lasciano terre e vite bruciate. Lo hanno fatto nella mia patria, impuniti. E continueranno a farlo, ovunque, se non saranno fermati.
In realtà è tutto molto facile. Siamo davanti alla guerra. Sì, le bombe oggi non cadono sopra le nostre case, ma sopra i nostri valori – quelli fondamentali della libertà, della democrazia, dei diritti umani. E nelle guerre non ci sono cinquanta sfumature di grigio. C’è una parte o l’altra. Chiudere gli occhi, cercare le giustificazioni, preferire il comodo “sono per la pace”? O aprire gli occhi e, nonostante tutto lo sconcerto per le illusioni crollate, nonostante tutto l’orrore che ci si apre davanti, nonostante tutte le paure che ci percuotono, sapere, vedere e, di conseguenza, fare?
Essendo noi abitanti di un’era planetaria che vive di informazioni, non c’è forse azione più pericolosa del lasciar trapelare prospettive fallaci, mancanti di ragionamento critico. Nel migliore dei casi parole come quelle del professor Orsini restano nell’incosciente memoria dello spettatore, nel peggiore dei casi invece produrranno un popolo ambiguamente educato al ragionamento fittizio, non in grado di maneggiare le informazioni con praticità ed efficacia, destinato a essere il lasciapassare per il male impunito, giustificato, addirittura romantizzato”.
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