Progettazione culturale in Sardegna: perché l’Isola non riesce a fare il salto di qualità
Progettazione culturale e valorizzazione dei beni culturali: qual è la situazione nella Isola? Quali i punti di luce e quali le ombre? La riflessione di Giuditta Sireus, manager culturale di Villacidro
Progettazione culturale e valorizzazione dei beni culturali: qual è la situazione nella Isola? Quali i punti di luce e quali le ombre?
La riflessione di Giuditta Sireus, manager culturale di Villacidro.
«È verità universalmente riconosciuta che la Sardegna in fatto di Cultura abbia quasi sempre necessità di guardare il giardino del vicino di casa. Questo accade perché si tenta di tracciare i confini del proprio senza prima comprendere le qualità del terreno dove questo sorgerà e le sue peculiarità, se ve ne sono, considerando quali piante o alberi attecchiranno meglio o prima o dopo, ma soprattutto riconoscendo le reali attitudini di colui che vuole esserlo a ricoprire il ruolo di giardiniere o agricoltore.
Perché studiare, analizzare o recuperare tecniche vincenti altrove non è peccato, ma lo è non avere le capacità critiche e le competenze per applicarle rischiando di vanificare risorse, energie, tempi.
La cultura in Sardegna è un tema difficile da sviscerare. Il motivo sta nel fatto che abbiamo necessità di compiere un passo decisivo che non compiamo mai: quello di studiarci, di riflettere su noi stessi e capire in quale senso vogliamo procedere, progettando idee e iniziative che non sono solo un qui e ora bislacco e fulmineo che non lascia nulla del proprio passaggio, ma creando rete, benessere, impatti sociali, comportamenti ecosostenibili, rinnovamenti veri e propri all’interno delle comunità e a lungo termine.
Stentiamo ancora oggi a riconoscerne il valore e il suo essere settore di mercato, relegando la Cultura talvolta a mero passatempo o solo ed esclusivo volontariato, oppure un’opportunità offerta da un bando, dal favore concesso o dall’accesso a un finanziamento che porta alla sola preoccupazione di un fare per ottenere. L’assenza di un organo di verifica dei risultati raggiunti, della qualità delle manifestazioni e dei benefici realmente ottenuti, incentiva chiunque ad attuare qualcosa. L’importante è che si faccia. L’importante è che si spenda.
Probabilmente discorsi già letti o ascoltati, ma che non abbiamo ancora interiorizzato, perché la strada è ancora da costruire.
Immagino che, giunti a questo punto, sarete pronti a controbattere a quanto sopra detto e a snocciolare casi di buoni progetti. Sono certa che mi elencherete esempi di iniziative bellissime e riuscitissime, ma di breve e medio termine, soprattutto breve. Perché dunque si desiste dal ragionare in maniera progressiva e continuata? Gli effetti della cultura sono temporanei e stagionali? È meglio assaggiare la Cultura piuttosto che assaporarla lentamente, potendone godere di ogni suo beneficio? E perché la Cultura diviene strumento prioritario in politica solo in campagna elettorale e mai nell’attuazione delle linee programmatiche?
La cultura è invisibile, la cultura non ripaga quanto una strada asfaltata o quanto la realizzazione dell’ennesimo contenitore di bellezza che poi non tiene conto del suo contenuto tantomeno di chi quel contenitore e quel contenuto dovrebbe gestirli con professionalità. Il motivo è che noi non siamo pronti alla bellezza, non sappiamo leggerne l’utilità e comprendere che da essa si generano il futuro e la consapevolezza del mondo. E se pensiamo che, comunque sia, questa ci possa restituire qualcosa di buono, non concepiamo che asservendola alle nostre ipocrite ambizioni, ai nostri patetici egoismi, la deturpiamo del suo donare per natura. È il ribaltamento dei valori dove non siamo più noi al servizio della Cultura ma è la Cultura a servizio nostro.
Come farla dunque? Come promuoverla? Liberandola dalle catene degli interessi torbidi che non producono né bello, né buono e nemmeno il giusto.
Giustizia. Così l’oracolo di Delfi rispose alla domanda “che cos’è bello?”: Il più giusto è il più bello. Ma noi siamo ben lontani dal concetto di giustizia considerando che ci affidiamo alla spartizione “meritocratica” dei contributi pubblici con un click più veloce. E non solo! Servirebbe conoscenza derivata da studi, preparazione, formazione ed esperienza, requisiti ben lontani dalla maggior parte di coloro che organizzano oggi eventi o fanno promozione culturale. E tutti possono fare cultura? La possono fare tutti nella misura in cui tutti possono concepire, nei loro limiti, idee e propositi. Giustizia e meritocrazia devono muovere allo stesso modo chi produce cultura. Concepire la figura del professionista della cultura come una realtà possibile e non un alieno dovrebbe quindi essere un pensiero che si fa concretezza.
Non cedere alla succulenta opportunità di poter ottenere definizioni quali quella di “direttore artistico” per autocelebrarsi, ottenere visibilità senza un’opportuna autovalutazione del chi si è, del che cosa si è fatto, del che cosa si è studiato e della capacità di poter
ricoprire un tale incarico. Anche l’arte ha le sue regole. Non è un gioco. E sarebbe tempo di dare spazio finalmente alle maestranze
della cultura che sanno valorizzare e rispondere ai bisogni, ne conoscono i principi e farsi guidare da queste quale passo essenziale per una prima e vera rivoluzione del settore».
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