Paola Antonelli, la direttrice del MoMa di New York, con la Sardegna nel cuore

Intervista a Paola Antonelli, la direttrice di origini sarde del MoMa di New York, tra le donne più influenti al mondo nel settore arte
A cura di Massimiliano Perlato
È nata in Sardegna ma ha trascorso la maggior parte della sua vita lontano dall’Isola. Paola Antonelli è oggi valutata come una delle persone più autorevoli a livello mondiale nel settore dell’arte.
È la curatrice del Dipartimento di Architettura e Design e Direttrice della Ricerca e dello Sviluppo al Museum of Modern Art (MoMa) di New York. «Sono nata a Sassari perché mio padre, chirurgo e professore universitario, esercitava in quella città. Quindi ho avuto il favorevole destino di nascere nell’Isola e di viverci per diversi anni. Poi ci siamo spostati a Ferrara prima e a Milano poi. Con la Sardegna però ho mantenuto un rapporto energico, peculiare. Ho studiato al Politecnico di Milano. Poi tutto è avvenuto sistematicamente, nel senso che ho avuto la sorte di avere genitori che mi hanno spinto a imparare le lingue, a viaggiare, che non mi hanno mai fermata quando intraprendevo avventure all’estero, come quando ho deciso di trapiantarmi a Los Angeles e poi a New York».

Figlia come detto di un chirurgo e di un’anatomopatologa, dopo aver fantasticato di divenire astronauta, fisico nucleare, economista, si laurea in architettura ma percepisce in cuor suo di non voler svolgere quella professione. Sceglie allora il giornalismo e l’insegnamento: negli Stati Uniti è docente all’UCLA University della California per tre anni e mezzo, e dopo alcune sperimentazioni da freelance curator, entra – trentenne e donna – curatrice del più importante museo di arte contemporanea al mondo, il MoMA.
E da quel giorno sono trascorsi 26 anni. «Sono fortunata. Per quanto concerne New York, mi sono stabilita qui rispondendo a un annuncio sul giornale per questa posizione al MoMA. Lo sbarco negli States avvenne per amore. Gli anni di contratto alla UCLA e, di lì a poco, il primo incarico a New York, sono stati impegni che ho accettato rimboccandomi le mani: quanto a design era ferma alle realizzazioni in Das, ho creato il sito internet del Museo, assimilando per l’occasione l’HTML. La mia italianità, l’arte di arrangiarsi, mi hanno aiutato».
Paola ricorda l’approccio esistenziale alla Grande Mela. «Ero, come si dice negli Stati Uniti ‘un cervo nelle luci della macchina’, come quando questi animali si bloccano nel mezzo della strada perché sono abbagliati e non sanno più cosa fare. E’ stato difficile. Poi appena mi hanno affidato la prima mostra, mi sono messa a lavorare ed è tutto passato. Il vero trauma è stato trasferirmi a New York da Los Angeles, perché è un modo di vivere totalmente differente. Adesso sono molto contenta e fiera di essere qui: quando ti concretizzi a New York lo vedono tutti, è una piattaforma globale unica».

La funzione di direttore del dipartimento di Ricerca e Sviluppo del MoMA richiede una responsabilità costante nel comprendere i criteri più efficienti per arrivare al pubblico. «Credo fermamente che i musei agiscano come un’agopuntura culturale per la società. Cerco di riflettere sul contesto in cui la vita si srotola, con le laboriosità, le tensioni e le pressioni. E in quest’ottica ampia ponderare i musei unicamente come luoghi dove andare a vedere arte è parecchio riduttivo».
Ha curato mostre oltre che negli Stati Uniti, in Giappone, Francia e Italia. Collabora con riviste specializzate ed è autrice di numerose pubblicazioni. Il dialogo con l’Italia è rilevante, in particolare con Milano. Certa che sia ancora la capitale mondiale del design, Paola afferma che alla design week si potrebbe fare molto di più, spostando le attenzioni dal mobile al design in generale. Certo, non se ne occuperà lei: abdicare al MoMA è impensabile. «Tutte le proposte che ho ricevuto, non solo dall’Italia, non mi garantivano la visibilità e il potere che ho qui a New York. Al Moma se alzo il telefono raggiungo chiunque, sempre. È il posto di lavoro ideale».
Però le opportunità di collaborare non mancano. L’ultima è stata addirittura l’impegno per la XXII Esposizione Internazionale della Triennale di Milano nel 2019.
Paola Antonelli, “She”, intelligente, intuitiva, tagliente, personalità autorevole, da sempre promulga il design come materia universale e filosofica al servizio della società, sostenendone la funzione di catalizzatore di cambiamento nel mondo, connessione tra pensiero e vita. È una rivoluzione garbata e ostinata la sua, che svolge attraverso la didattica, l’attività divulgativa in congressi internazionali e design week, le visite alle scuole e negli studi. Per lei “il design è tutto e ovunque”: nella politica, nella tecnologia, nella genetica, come nella digitalizzazione. Ama innalzare ponti tra i saperi, che riassume in costrutti potenti, contro ogni preconcetto. Nel mentre si dedica alla ricerca, all’ascolto e alla difesa dei valori in cui crede.
Sulla tanto dibattuta ‘fuga dei cervelli’ dall’Italia ha un’idea chiara: «L’Italia è ancora al top, almeno per quanto riguarda il settore design. Finiamola con la storia che i talenti italiani scappano tutti e soprattutto ricordiamoci che i marchi italiani attirano, oggi come in passato, designer da tutto il mondo».
E la professoressa menziona con piacere i suoi esordi: «Non è facile affiorare, talmente tante sono le sfide che devi affrontare. Ci sono così tanti festival e fiere in giro per il mondo che alla fine diviene arduo farsi notare. Ma proprio questo è uno dei lati che amo di più del mio lavoro: le numerose chances che dona a chi è capace e voglioso di mettersi in luce».
Un’analisi è sul differente modo d’approcciarsi al lavoro negli Stati Uniti rispetto all’Italia. «In America l’organizzazione è molto impostata, raramente ci sono intoppi, c’è limpidezza e credibilità nelle informazioni che vengono fornite. Questa è una forza degli americani ma anche una loro debolezza perché a volte c’è necessità della ‘fluidità’, della capacità tutta italiana di far funzionare comunque le cose. Di diversità così ce ne sono molte e posso dire di essere felice a poter esercitare in ambedue le realtà».
A chi le domanda della Sardegna, Paola con orgoglio ribatte di appartenere a questa terra. «Quando sono nell’isola sto bene come in pochi altri posti e devo dire che ho preso le decisioni più importanti della mia vita sugli scogli sardi. La scelta che mi ha cambiato la vita, quella di lasciare gli studi di Economia per passare ad Architettura, l’ho fatta mentre mi trovavo a Isola Rossa. Che dire, quando sono nel mare della Sardegna mi pare di essere nel mio brodo primordiale. Sono soddisfatta come non mi succede spesso altrove».

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Proclamati i vincitori della VII edizione del concorso “Visioni Sarde”. A Cesaraccio il primo premio

Gianni Cesaraccio con "Valerio" si è aggiudicato il Primo Premio della settima edizione di "Visioni Sarde".
Proclamati i vincitori della VII edizione del concorso “Visioni Sarde”. “Valerio” di Gianni Cesaraccio vince il primo premio.
La Giuria – presieduta da Elvira Serra e composta da Franca Farina, Alberto Masala, Bruno Mossa, Sergio Naitza, Antonello Zanda e Davide Zanza – ha motivato il riconoscimento con queste parole: “La macchina da presa si muove in equilibrio tra gli espedienti miserabili di Valerio – meschino, cinico e ladro – e sulle sue abissali vacuità, privo di ogni dubbio etico. Grande merito agli interpreti, con una nota particolare per Vanni Fois. Il regista ci conduce senza indecisione ad un finale privo di redenzione”.
Il Premio FASI è stato invece assegnato a
Angelica Demurtas ,giovane regista di “Fragmenta”, con la seguente motivazione: ” In pochi minuti cattura in pieno la forza dei materiali di archivio e ne restituisce l’essenza con la grazia e l’eleganza di parole semplici, mai banali. Fragmenta è bel viaggio attraverso le immagini e la narrazionedel passaggio generazionale di una storia che potrebbe essere la nostra. Il tema universale fa si che ognuno di noi possa riconoscersi in almeno un frammento”.
Ha conferito questo premio la Giuria presieduta da Elvira Serra e composta da Giampietro Balia, Michele Casula, Giulia Marras, Massimiliano Mazzotta, Mauro Montis e Elisabetta Randaccio.
Il Premio Visioni Sarde della Giuria Giovani è invece andato a “Lasciami andare” di Roberto Carta.
La giuria competente, formata da Efisia Curreli, presidente, e da Elisa Carrus, Chelu Deiana, Lorenzo Lai, Alessandra Pirisi, Francesco Rubattu ha così motivato il premio: “Per la disincantata visione che scardina i miti – troppo spesso romanticizzati – del banditismo sardo e della latitanza sui monti, e per la fotografia che mette in contrapposizione spazi angusti e quotidiani e la vastità dei cieli stellati ambiti dal protagonista”.
La Giuria Giovani ha, inoltre, attribuito il Premio dell’Associazione”Visioni da Ichnussa” per il Miglior Attore a Vanni Fois, interprete di “Valerio” e “Dakota Dynamite”, con la seguente motivazione: “Difficile che un ‘cattivo’, un amorale senza scrupoli, meriti un riconoscimento. Normalmente è l’eroe positivo a convincere le giurie. Non è questo il caso di Vanni Fois. Le sue interpretazioni di personaggi subdoli, col marchio della perfidia, dell’egoismo insanabile senza pentimento, sono detestabili. Ma sono talmente convincenti da farci dire che Vanni, come Jessica Rabbit, non è cattivo. È che lo disegnano così. O almeno, lo speriamo…”.
A Visioni Sarde hanno partecipato: Bonifacio Angius con “Destino”, Valerio Burli con “Dakota dynamite”, Roberto Carta con “Lasciami andare”, Gianni Cesaraccio con “Valerio”, Angelica Demurtas con “Fragmenta”, Alberta Raccis con “Fogu”, Simone Paderi con “L‘abbraccio” ed Enrico Pau con “Gabriel”.
La mission di Visioni Sarde è quella di promuovere la scoperta di nuovi talenti sardi, sostenere la loro valorizzazione e offrire loro la possibilità di farsi conoscere da un pubblico sempre più vasto.
Visioni Sarde nasce all’interno dello storico Festival Visioni Italiane, organizzato dalla Cineteca di Bologna ormai giunto alla 26esima edizione, considerato la miglior ribalta per i registi del futuro. Quest’anno, a causa del coronavirus, la Sezione Visioni Sarde è stata trasferita a Cagliari, negli spazi all’aperto dell’ex Manifattura Tabacchi.
Pienone di pubblico alle proiezioni e alla cerimonia di premiazione. Molti sono stati fermati all’ingresso per esaurimento dei posti. Per chi non è riuscito a entrare l’organizzazione ha promesso, sempre negli spazi di Odissea, la replica della rassegna.
Quest’anno il progetto “Visioni Sarde” è curato dall’Associazione dei Sardi in Torino “A. Gramsci” che si avvale dell’Associazione cinematografica “Visioni di Icnhussa”, per i compiti organizzativi. L’edizione 2020 è stata resa possibile grazie al sostegno finanziario fornito dalla Fondazione Sardegna Film Commission e dal contributo concesso dalla Regione Autonoma della Sardegna, Assessorato del Lavoro.
«La rassegna cinematografica Visioni Sarde interpreta lo scopo e lo spirito delle iniziative promosse dall’Assessorato del Lavoro, cui le Associazioni degli emigrati fanno riferimento, in merito alla promozione e tutela del carattere identitario della gente della nostra Sardegna – aveva sottolineato l’assessore Alessandra Zedda durante la presentazione dell’evento – Da anni i Circoli dei Sardi contribuiscono attivamente alla diffusione della nostra cinematografia per far conoscere fuori dell’isola un’espressione artistica che rappresenta un veicolo di formazione e di crescita culturale, sociale ed economica, caratterizzato dal non trascurabile vantaggio di durare nel tempo in virtù della penetrante incidenza che la “settima arte” ha nell’immaginario popolare».
A cura di Enzo Cugusi

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